Mercoledì, 11 Settembre 2024 13:48

Non solo sport

L’estate delle Olimpiadi porta con sé tantissime riflessioni. Personalmente, vivendo la scuola da insegnante di matematica, ho scoperto che matematica e sport hanno parecchio in comune: «Creare la matematica è un’esperienza sofferta e misteriosa» scrive Simon Singh e tutti noi sappiamo che realizzare le grandi imprese dello sport non è certo facile. Ho già tentato un’esplorazione di questi aspetti con le Olimpiadi di Tokyo, ma l’articolo che avevo scritto è stato pubblicato su un sito che ormai è chiuso e le mie riflessioni si sono perse nella nebbia del web. Provo a ripercorrere il sentiero di allora, aggiungendo nuove tappe e nuovi panorami, elencando le caratteristiche necessarie per una buona riuscita nello sport e abbinando ad ogni sportivo un matematico o un fisico, suggerendo letture e spunti di riflessione. 

Forza di volontà
La forza di volontà è quella caratteristica che non si può che riconoscere a tutti gli atleti, ma se devo sceglierne un rappresentante propongo Gianmarco Tamberi, vincitore della medaglia d’oro nel salto in alto a Tokyo: sul gesso con il quale l’avevano fasciato dopo l’infortunio che gli era costato le Olimpiadi di Rio, nel momento in cui aveva deciso di ricominciare a lottare aveva riportato la frase “Road to Tokyo 2020” (poi corretto in 2021). Quel gesso l’ha accompagnato a Tokyo, come ricordo delle fatiche, fisiche e mentali, che aveva dovuto affrontare per raggiungere l’ambito traguardo, un «simbolo della mia forza d’animo, della mia volontà di provarci e riprovarci nonostante le avversità». La vittoria di Tamberi alle Olimpiadi di Tokyo è stata anche un esempio di amicizia, quella con Mutaz Essa Barshim, con il quale ha condiviso la medaglia d’oro. Abbiamo rivisto la stessa amicizia a Parigi, dove, però, la forza di volontà non è bastata: Gimbo ce l’ha messa davvero tutta per conquistare il podio anche in questa edizione, ma le sue condizioni di salute hanno remato contro di lui fin dall’inizio. Eppure, io credo che, nel fallimento dell’impresa, Gianmarco Tamberi abbia regalato a tutti noi più di quanto avrebbe potuto fare con una vittoria: ci ha dimostrato che, a volte, è necessario impegnarsi in tutti i modi, anche quando l’obiettivo sembra fuori dalla nostra portata. Dal canto suo, Gimbo aveva la consapevolezza di essere al meglio della forma e di poter dare buoni risultati, nel caso in cui fosse riuscito a combattere la sofferenza fisica.

La forza di volontà mi riporta alla mente tantissimi esempi e, tra tutti, scelgo quello di Marie Curie: il racconto della sua vita ci è presentato, in maniera essenziale, nella sua Autobiografia, dove non mancano riferimenti alla fatica di un lavoro ripetitivo, ma anche alla felicità che quel lavoro procurava a lei e a Pierre. «Una delle nostre gioie era recarci di notte nel laboratorio. Allora scorgevamo da tutte le parti le sagome debolmente illuminate dei flaconi e delle boccette che contenevano i nostri prodotti. Era davvero una vista incantevole e sempre nuova per noi. Le provette scintillanti sembravano tenui luci fiabesche.» Anche Marie Curie ha vissuto grandi amicizie nel corso della sua vita: oltre al sodalizio con Pierre, oltre all’amicizia con Albert Einstein, non si può dimenticare il patto stretto con la sorella Bronia, raccontato in Marie e Bronia, un patto tra sorelle. Bronia parte per Parigi per studiare medicina, mentre la sorella lavora come istitutrice per mantenerla agli studi; una volta conclusi gli studi di Bronia, anche Marie può partire per Parigi, potendo contare sul sostegno della sorella: il patto ha permesso a entrambe di realizzare il proprio sogno.
Nella vita di Marie Curie, non sono mancati i momenti di difficoltà: la morte di Pierre, quando le figlie erano ancora piccole, e poi l’attacco mediatico subito nel momento in cui è diventata di dominio pubblico la relazione con Paul Langevin. Sara Rattaro nel romanzo Io sono Marie Curie racconta molto bene questi momenti della vita di Marie Curie, immaginando che sia proprio lei a raccontare il dolore dopo la morte del marito, il ritrovato entusiasmo agli inizi della relazione con Langevin, e la forza di ricostruirsi, con l’appoggio degli amici, dopo i pesanti attacchi. 

Determinazione
Un altro esempio di forza di volontà che non è riuscita a combattere la sfortuna ci è offerto da Derek Redmond, che alle Olimpiadi di Seoul del 1988 era stato obbligato a ritirarsi a causa di un infortunio, dieci minuti prima della gara. Quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Barcellona, la sua voglia di vincere è al massimo livello: qualificatosi alle semifinali dei 400 m piani con il tempo migliore, sta affrontando al meglio la gara, ma dopo 250 m lo strappo del bicipite femorale destro lo obbliga a fermarsi, segnando la fine del suo sogno olimpico. Si rimette in piedi, perché vuole tagliare il traguardo: procede con determinazione, nonostante il dolore e, nella sua gara personale, lo raggiunge il padre, Jim, che lo sostiene fino alla fine, accogliendo le sue lacrime e cercando di consolarlo. Quando taglia il traguardo, Derek viene accolto dalla standing ovation dei 65 mila spettatori presenti. Il filmato della gara è disponibile sul canale YouTube ufficiale delle Olimpiadi, nella descrizione del quale si parla di «vero coraggio contro le avversità»: «Pochi ricordano che lo statunitense Steve Lewis ha vinto la semifinale in un tempo di 44.50. Ma nessuno, tra quelli che hanno visto la gara, può dimenticare il coraggio di Derek Redmond nel giorno che ha definito l’essenza dello spirito umano e olimpico».

«Da quando l’ho incontrato per la prima volta da bambino, l’Ultimo Teorema di Fermat è stata la mia grande passione»: sono le parole di Andrew Wiles riportate da Simon Singh nel celebre L’Ultimo teorema di Fermat, il racconto di una dimostrazione che ha richiesto più di 350 anni. La passione per una delle congetture più celebri, e forse più semplice da enunciare, della storia della matematica accompagna Wiles nella sua crescita e, quando decide di impegnarsi seriamente nella dimostrazione, lavora in completo isolamento e in segreto, quasi ad imitare il lavoro di Fermat: «Capii che tutto ciò che ha a che fare con l’Ultimo Teorema di Fermat genera un interesse eccessivo. Non è possibile rimanere concentrati per anni a meno che non ci sia un completo raccoglimento, che troppi spettatori avrebbero distrutto.» Forse non c’è stata una standing ovation quando Andrew Wiles ha concluso la sua conferenza, nel giugno del 1993, dicendo: «Penso di fermarmi qui», ma c’è stato un lungo applauso, dopo che un silenzio denso di attenzione e solennità aveva accolto la sua dimostrazione. Quel momento di gloria sembra rovinato dalla scoperta di un errore: «A meno di sei mesi dalla conferenza al Newton Institute, il sogno d’infanzia di Wiles era a brandelli. Alla gioia, alla passione e alla speranza che lo avevano accompagnato negli anni trascorsi a eseguire calcoli in segreto si sostituirono l’imbarazzo e la disperazione.» Credo che sia proprio in questo momento che viene allo scoperto la determinazione di Wiles: non sono bastati gli anni in solitudine a lavorare alla dimostrazione, è in questo momento che la sua forza si mostra in tutta la sua bellezza, adesso che gli occhi della comunità matematica sono puntati su di lui e che qualcuno comincia a parlare di fallimento dell’impresa. «Dopo essere stato spinto sull’orlo della resa, Wiles aveva reagito dimostrando il proprio genio al mondo. Gli ultimi quattordici mesi avevano rappresentato il periodo più doloroso, umiliante e deprimente della sua carriera matematica. Adesso un’intuizione brillante aveva posto fine alla sua sofferenza.» Difficile riuscire a raccontare meglio di Singh questa impresa eccezionale. 

Grinta
Come Tamberi, anche Bebe Vio ha puntato alle Olimpiadi di Tokyo accompagnata da un conto alla rovescia: ha parlato dei suoi 119 giorni, quelli che ha dedicato alla preparazione per le Paralimpiadi, «119 giorni per raggiungere l’impossibile» (come ha titolato Repubblica): anche lei, durante la gara, aveva con sé il braccialetto dell’ospedale sul quale era scritto «– 119» e solo a gara conclusa abbiamo saputo del terribile verdetto di aprile e dei rischi corsi a causa di un’infezione. In realtà, anche questa competizione è stata preceduta da molte difficoltà: sono passati solo tre anni da Tokyo e Bebe Vio ne ha usati due per sottoporsi a interventi chirurgici per essere al meglio della forma. Con la positività che la contraddistingue è riuscita a dire: «è stato un periodo difficile, ma è stato fantastico» e questo perché ha avuto il supporto di varie figure che l’hanno aiutata a coronare il sogno di ottenere la medaglia di bronzo sia nel fioretto individuale che in quello a squadre.
Prima ancora della competizione, Bebe Vio aveva dichiarato sui social che non avrebbe partecipato alle Paralimpiadi di Parigi, ma che avrebbe GAREGGIATO, facendosi portavoce di un cambiamento non solo verbale, ma di sostanza, culturale. Possiamo ricordare le sue parole, citate in questo articolo di Lorena Encabo e Benedetto Giardino: «Sappiamo di avere il potere di provare a dire qualcosa. Sappiamo che ogni punto qui, alle Paralimpiadi, potrebbe essere un punto con cui possiamo smuovere le persone, se un piccolo ragazzo con una disabilità sta guardando la televisione in quel momento specifico, guardando quel singolo punto. Possiamo letteralmente scuoterle e dire loro: “Ok, lo sport è bello, è sano, è fantastico”. È qualcosa di così bello e vogliamo che quante più persone possibili si spingano un po’ di più.»

Anche Cedric Villani, come Bebe Vio, dopo aver identificato il suo obiettivo, ha dovuto confrontarsi con un conto alla rovescia serrato: «Dopo mi resteranno cinque mesi, li passerò sul mio grande sogno, la regolarità di Boltzmann! A questo fine mi sono portato dietro degli appunti che ho scribacchiato in una decina di Paesi differenti.» Il sogno di Villani è l’Olimpo della matematica, la medaglia Fields, ma il conto alla rovescia è necessario: «Il limite di età a 40 anni, che stress! Non ho che 35 anni… […] Nel 2014 per soli 3 mesi sarò troppo vecchio; la MF sarà quindi nel 2010 o mai più.» Il teorema vivente è il racconto di questa impresa: narrato in prima persona, ricco di storia della matematica, di fumetti e di matematica, è un libro da leggere e da far leggere, per poter capire cosa significhi fare matematica ad alto livello. «Non ha prezzo un sentiero senza illuminazione! Quando non c’è la luna, non si ha neanche una visibilità di tre metri. Il passo accelera, il cuore batte un po’ più in fretta, i sensi restano sul chi vive. Uno scricchiolio nei boschi fa drizzare le orecchie, ci si dice che la strada è più lunga del solito, ci si immagina un malintenzionato in agguato, ci si trattiene a malapena dal mettersi a correre. Questa galleria buia è un po’ come la fase buia che caratterizza l’inizio di un progetto matematico», ma in fondo è così l’inizio di qualsiasi progetto. 

L’importanza della squadra
Nel suo avvicinamento al traguardo, Derek è stato sostenuto dal padre Jim, la sua squadra. Ripensare alle olimpiadi del 2021 non può che riportarci alla mente la squadra italiana che ha vinto la medaglia d’oro nella staffetta maschile 4x100 m: Patta, Jacobs, Desalu e Tortu. Domenico Licchelli, astrofisico che si occupa di didattica e comunicazione scientifica, ha evidenziato, in un post su Facebook, gli aspetti matematici e fisici che si nascondono dietro la vittoria della staffetta: i corridori devono avere, innanzi tutto, caratteristiche diverse, visto che «il primo frazionista deve essere un buon partente ed un buon corridore in curva. Il secondo frazionista deve essere potente nella corsa lanciata e resistente a lungo ad alta velocità. Il terzo deve esprimere una potenza muscolare tale che gli consenta di sopportare le maggiori spinte in curva opponendosi alla gravità terrestre ed alla forza centrifuga. […] Il quarto dovrà eccellere nella corsa lanciata e saper gestire le forze per portare a termine l'impresa, mantenendo il vantaggio o recuperando terreno». E tutto questo ancora non basta per vincere, perché conta anche l’«indice di cambio», ovvero la capacità di scambiarsi il testimone nel più breve tempo possibile e, per rendere l’operazione il più fluida e veloce possibile, è necessario provare e riprovare. Non possiamo riassumere il tutto dicendo semplicemente che l’unione fa la forza, perché è necessario ricordare anche l’esercizio che migliora le prestazioni. Nella vita scolastica, entrambi gli aspetti sono importanti, innanzi tutto perché i ragazzi si trovano inseriti in due squadre, la squadra formata dalla classe – perché a scuola non si impara come singoli ma come gruppo – e la squadra formata con i propri docenti, preparatori atletici consapevoli di ciò che è necessario fare per affrontare al meglio il percorso, e in secondo luogo perché è necessario un continuo esercizio per migliorare le proprie prestazioni (e non solo in matematica).

La squadra è presente nel lavoro di Cedric Villani: «Quello che anzitutto apprezzo del mio laboratorio, così piccolo e insieme così dinamico, è il modo in cui gli argomenti si mescolano tra i ricercatori di diversi orizzonti matematici, davanti alla macchina del caffè o nei corridoi, senza timore delle barriere tematiche.» La squadra è quella che ha formato Maryam Mirzakhani prima con Curtis McMullen e poi con Alex Eskin, dell’Università di Chicago, come raccontato in questo video. Ma se penso ad un’altra squadra, mi viene in mente, in tempi recentissimi, quella mostrata nel video dell’Università di Parma, realizzato in occasione dell’assegnazione dell’EMS Prize a Cristiana De Filippis: la giovane matematica parla di come sia stata attirata a Parma, durante il suo dottorato a Oxford, per la ricerca di alto livello fatta dal gruppo di analisi, racconta del suo lavoro dai ritmi intensi e senza orari, racconta con passione ed entusiasmo come si approccia alla ricerca. E poi ci sono le parole di Tuomo Kuusi dell’Università di Helsinki e di Giuseppe Mingione dell’Università di Parma con i quali sta lavorando. Il video ci permette di cogliere il senso di una squadra, di vedere le risate e la complicità che legano i singoli componenti. 

Gli errori
Nello sport come nella vita non mancano gli errori e i fallimenti: cominciamo da una (rara) sconfitta di Sinner ai primi di luglio di quest’anno e dal commento di Panatta al riguardo: «Nel tennis si perde, i più forti non lo fanno così spesso, e Jannik Sinner è tra questi, ma ogni tanto succede anche a loro. Esiste una normalità della sconfitta che andrebbe maggiormente rispettata.»
Il secondo fallimento (perché qui non si tratta di errore) è quello di Ambra Sabatini alle Paralimpiadi di Parigi: la sua emozionante intervista dopo la gara, e dopo la caduta che le è costata il podio, mostra tutta la sua grandezza, visto che parla del suo senso di colpa per aver rovinato la gara di Monica Contrafatto, ma mostra anche la sua grinta quando dice «Ho superato tante cose, supererò anche questa». Lo sguardo di Ambra è già puntato avanti: «C’è dell’amaro ora, so che però ho tante opportunità davanti ed è già cominciato il percorso verso Los Angeles 2028», perché, come diceva Paola Egonu all’indomani delle Olimpiadi di Tokyo, gli errori sono importanti per migliorarsi e crescere.
Di errori ha parlato anche Julio Velasco, all’indomani della vittoria della medaglia d’oro: intervistato dai giornalisti che gli hanno chiesto se avesse ritrovato la pace dopo le Olimpiadi di Atlanta del 1996, dove la nazionale maschile da lui guidata aveva perso in finale contro l’Olanda, il celebre allenatore ha parlato con la consueta saggezza ricordando che nello sport funziona così, a volte si perde per un soffio e a volte si vince per un altro soffio. La sua grandezza è nell’aver accettato la sconfitta che forse molti tifosi ancora non hanno accettato, ma soprattutto nel non accettare di essere messo su un piedistallo dopo la vittoria alle Olimpiadi: «Non siamo speciali. Siamo vincenti. In questa occasione siamo stati i vincitori.» Se si accettasse di essere speciali quando si vince, bisognerebbe mettere in conto di non esserlo quando si perde, e Velasco non si lascia vincere da questa tentazione.

Nel cercare storie per questo articolo, nel libro di Simon Singh sull’ultimo teorema di Fermat ho trovato due riferimenti al ruolo di Eulero nella costruzione della dimostrazione: «Il matematico più creativo della storia fu umiliato dalla sfida di Fermat», scrive inizialmente Singh. Ma, subito dopo, scrive qualcosa di ancora più grande: «Per nulla scoraggiato dal fallimento, Euler continuò a creare geniali teorie matematiche fino alla morte, un risultato reso ancor più notevole dal fatto che durante la fase conclusiva della sua carriera rimase completamente cieco.» Come non citare, infine, Alessio Figalli? In un’intervista con l’Università di Padova nel marzo di due anni fa, ha parlato proprio dell’errore: «Vivo nel fallimento, come tutti gli scienziati. Diciamo che per un problema risolto, dieci non riesco a risolverli. […] La ricerca è fatta di fallimenti e non c’è niente di male. Ognuno di noi, quando fa ricerca, deve capire come gestire la frustrazione del fallimento, perché quella è inevitabile: io, per esempio, la gestisco lavorando su più problemi. Di solito magari da due o tre non riesco a tirare fuori nulla, però magari al quarto che sto facendo qualcosa salta fuori e quello mi dà la motivazione e la soddisfazione per gestire poi quelli che non funzionano.» 

La medaglia di legno
Tendiamo a considerare il quarto posto, quando il podio ti sfugge per poco, il fallimento peggiore, eppure dal 3 agosto potremmo avere una visione diversa della cosa. In quella data, Benedetta Pilato si è classificata quarta, a un solo centesimo dal podio, nei 100 m rana: l’abbiamo sempre raccontata così, che ha perso il podio per un centesimo, ma da subito dopo la gara, durante un’intervista, la nuotatrice ci racconta una realtà diversa, cambiando il nostro punto di vista al riguardo, parlando del giorno più felice della sua vita. Ma come è possibile? «Questo è solo un punto di partenza» dice e poi ricorda: «Un anno fa questa gara non ero nemmeno in grado di farla.» La bellissima testimonianza di Benedetta Pilato e la polemica che ne è seguita – e che ha contribuito ad attirare l’attenzione sul problema – hanno permesso di cominciare a cambiare il punto di vista, tanto che, nella cerimonia del Quirinale che si svolgerà a fine mese, Mattarella riceverà anche i classificati al quarto posto.

C’è un illustre esempio anche nella matematica di una medaglia mancata, ed è realmente una medaglia, trattandosi della prestigiosa Fields: nel 1957, sia Ennio De Giorgi che John Nash “incontrano” il diciannovesimo problema di Hilbert, uno dei 23 proposti dal matematico tedesco durante la conferenza del Congresso Internazionale dei matematici a Parigi nel 1900. De Giorgi lo dimostra con metodi mai usati in precedenza e pubblica la soluzione su una rivista italiana non molto nota all’estero, mentre John Nash arriva alla soluzione un paio di mesi dopo. «Quarant’anni più tardi, dopo aver vinto il Nobel, Nash accennò a quelle speranze infrante nel suo saggio autobiografico, esprimendosi nel suo abituale stile ellittico: “Sembra plausibile che, se De Giorgi o Nash non avessero risolto questo problema (o i calcoli aprioristici sulla continuità effettuati da Holder), l’unico scalatore a raggiungere la vetta sarebbe stato il vincitore della Fields (che di solito viene conferita a persone con meno di quarant’anni).”» La delusione di Nash fu grandissima, come viene ben descritto nel libro appena citato di Sylvia Nasar Il genio dei numeri

Il talento
«Effortless is a myth», ovvero: il fatto che un obbiettivo possa essere raggiunto senza sforzo è un mito, dichiara Roger Federer nel suo celebre discorso all’Università di Dartmouth, proponendo questa affermazione come prima lezione (sono tre in totale).
Gregorio Paltrinieri ha dichiarato durante le Olimpiadi: «Non sono qui grazie al talento, sono qui grazie al sacrificio che faccio tutti i giorni» dopo le due medaglie vinte a Parigi.
«Sveglia alle sei e mezza, alle 7 e mezza già in piscina, tre ore di allenamento, cinque chilometri di nuoto, sonnellino, pranzo, poi di nuovo piscina, altri cinque chilometri, cena alle 20 e a letto presto.» è la vita che dichiara di aver condotto Thomas Ceccon per prepararsi alle gare.

Ecco un altro dei terribili miti che vanno assolutamente sfatati: parlare di talento nasconde la volontà di crearsi un alibi. Se riconosco “solo” il talento a Federer, a Paltrinieri, a Ceccon, nessuno pretenderà da me che io mi impegni per raggiungere simili obiettivi; se, invece, riconoscessi il lavoro e lo sforzo fatto, mi renderei conto che potrei raggiungere anch’io obiettivi di un certo livello. Questo non vale non solo nello sport, ma ovunque: «La verità è che ho dovuto lavorare molto duramente per farlo sembrare facile» dichiara Federer.
Non posso non citare le parole di Katalin Karikò, dalla sua autobiografia, Nonostante tutto:

«Non mi considero particolarmente intelligente. Nel corso degli anni ho conosciuto molte persone apparentemente dotate di una memoria fotografica che permetteva loro di imparare senza fatica. A uno dei miei compagni di scuola delle elementari bastava sentir dire una cosa una volta e non se la scordava più. Io no, non ho mai avuto questo dono. Ma già da piccola avevo capito una cosa fondamentale: quello che mi mancava a livello di abilità naturali, potevo compensarlo con lo sforzo. Potevo impegnarmi di più, applicarmi per un numero maggiore di ore, fare di più e farlo con maggiore attenzione.
Persino in prima elementare e in seconda elementare mi impegnavo con tutta me stessa nello studio. Cercavo di non sbagliare niente. Se commettevo un errore, ricominciavo da capo.
Studiavo.
Studiavo.
Studiavo.
E, coincidenza, a quanto pare il cervello è malleabile. Più lo esercitiamo, più lo rafforziamo. Quanto a me, mi sono esercitata a eccellere negli studi: era un esercizio attivo, come allenarsi a fare canestro per un aspirante atleta. Come un atleta, miglioravo. Man mano, per me la scuola è diventata un ambiente sempre più naturale. In terza elementare ero talmente immersa negli studi che ho iniziato a prendere sempre 5 [il massimo dei voti], e non ho più smesso.
Né, aggiungerei, ho mai smesso di esercitarmi.»

Come già fatto in Inesauribile caparbietà, non posso non citare Gigliola Staffilani, prima donna italiana full professor al MIT, che alla domanda di Roberto Natalini in un’intervista del 2018 «Quanto del tuo lavoro è intuizione e quanto è solo duro lavoro?» ha dato una bella risposta: «Credo che l’intuizione arrivi quando ti sei chiarita abbastanza della tua mente da poterla ricevere. E per chiarirti devi lavorare duramente per cercare di eliminare tutti quei tentativi che non portano da nessuna parte.»
Infine, a tutti coloro che parlano di talento matematico non posso che suggerire la lettura del libro di Stanislas Dehaene Il pallino della matematica

Lo sport ci insegna che non sempre è possibile realizzare i propri sogni e così, a scuola, quel 10 che sentivamo di meritare davvero a volte ci viene negato, ma questo non è necessariamente una cosa negativa. Ciò che conta è imparare, e ricordiamo le parole di Einstein, scritte nel 1931 in «Come io vedo il mondo»: «È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie».

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