Sabato, 07 Settembre 2024 10:33

227 - 7 settembre 2024

Estate, tempo di riflessione
Mi piace pensare all’estate come al tempo della sistematizzazione di quanto fatto in passato, della riflessione e della progettazione in vista del futuro. Quest’ultima estate è stata per me l’uscita dalla mia comfort zone: a fine aprile ho ricevuto la proposta di tenere sei ore dell’insegnamento Metodi e strategie didattiche per l’insegnamento della matematica, nei corsi dei 30 e 60 CFU organizzati dall’Università Cattolica di Brescia (la stessa università dove mi sono laureata). Dover preparare le lezioni per fine agosto è stato per me un modo per riflettere su quanto realizzato in 25 anni di insegnamento, accogliendo il suggerimento di una collega/corsista che mi ha detto che a lei sarebbe piaciuto sentirmi parlare della mia esperienza di insegnamento. In effetti, non avendo una solida formazione in termini di didattica (a parte alcune letture), è stato meglio partire dalla mia esperienza, realizzando poi piccoli approfondimenti, costruiti con il lavoro di chi di didattica si occupa per professione.
La partenza non poteva che essere con l’intervista che Ilaria Fanelli ha fatto ad Alberto Saracco, docente di geometria presso l’Università di Parma, il 18 giugno scorso, con la presentazione del libro Le geometrie oltre Euclide. Durante la diretta, ho chiesto ad Alberto cosa avrebbe suggerito ad uno studente delle superiori per motivarlo a studiare matematica nonostante la fatica e la sua risposta è stata davvero articolata e profonda, focalizzando l’attenzione sui due attori principali del processo di insegnamento/apprendimento, ovvero lo studente e il docente. Siccome il mio intervento in questo corso si è svolto in due giornate consecutive, ho dedicato le prime tre ore al docente e le successive allo studente. 

La figura del docente di matematica
Le aspettative del mondo esterno nei confronti dei docenti sono molto elevate, soprattutto per l’insegnamento della matematica, e i docenti si trovano sottoposti, sempre più frequentemente, a forti pressioni, dovendo rispondere alle richieste, o meglio pretese, dei genitori e dei dirigenti. La prima accusa che viene rivolta agli insegnanti è quella di non saper motivare i propri studenti, e questo dà l’idea che il processo di apprendimento sia interamente a carico del docente. Lo stesso scrittore Jonathan Swift (1667-1745) si mostra impietoso quando descrive, nei suoi Viaggi di Gulliver, gli insegnanti di matematica: «Immaginazione, fantasia, invenzione sono loro affatto negate, né hanno nella loro lingua parole con cui queste facoltà possano esprimersi». Dopo aver chiesto ai corsisti di elencare le caratteristiche del docente ideale, ho rubato a Rosetta Zan I danni del ‘bravo’ insegnante. Ricordavo di aver partecipato, all’inizio della mia carriera, a un incontro di aggiornamento tenuto da lei e di essere rimasta molto colpita da quello che ricordavo come un decalogo (mentre i punti sono “solo” sette) e ho voluto riproporlo in questa sede, dopo averlo ritrovato tra gli atti di un convegno che si è svolto nel 2001. Partendo dal fatto che non esiste la ricetta per l’insegnante perfetto, con i corsisti abbiamo riflettuto su:

  • la necessità di stimolare l’attenzione degli studenti, senza dover incorrere nella frustrazione del docente;
  • la complessità del docente che non può sempre impedire la manifestazione delle proprie emozioni;
  • l’effetto Pigmalione (o effetto Rosenthal) riguardante i rischi delle profezie che si autorealizzano;
  • l’importanza della crisi e del fallimento come occasioni di crescita. In tal caso, non è potuto mancare il riferimento a Maria Colombo e a Cristiana De Filippis – e ho citato le loro interviste, sia durante la trasmissione Matematiche sul podio di Radio3 Scienza che ad opera di Raffaella Mulas – o ad Alessio Figalli durante un’intervista per l’Università di Padova;
  • la necessità di porre domande difficili proponendo delle sfide adeguate, e siamo stati aiutati a focalizzare al meglio le caratteristiche delle sfide efficaci attraverso le parole di Julio Velasco (già prima della vittoria delle azzurre alle Olimpiadi, il prof. Pietro di Martino, durante il convegno di Pistoia sulla didattica a maggio di quest’anno, aveva suggerito di cercare i numerosi video presenti su YouTube nei quali Velasco racconta le proprie strategie e regala un sacco di riflessioni che possono essere declinate in termini didattici);
  • l’importanza di non accontentarsi e di porsi domande importanti: qual è la gara per la quale stiamo preparando i nostri alunni? Se li stiamo preparando per la singola verifica, potremo lavorare come se dovessero misurarsi con la gara dei 100 m, ma se stiamo pensando a un Esame di Stato, la nostra gara sarà quella dei 10.000 m;
  • l’importanza di essere un esempio credibile, senza però esagerare nel costruire percorsi strutturati o nell’organizzare esercitazioni e lavori da far fare ai propri allievi: l’esperienza insegna che, spesso, a un minore impegno dell’insegnante corrisponde una crescita maggiore da parte degli studenti. Forse, val la pena imparare a spendere le nostre energie con saggezza.

Anche i social, volendo, offrono occasioni di approfondimento ed è così che mi sono imbattuta, scrollando il mio feed di Instagram, in un post condiviso su Twitter a fine agosto 2018 da André Sasser, all’epoca insegnante di matematica da 9 anni: «Due anni fa dicevo “Hai qualche domanda?”. L’anno scorso sono passata a “Quali domande avete?” Ha fatto la differenza. Oggi ho provato a dire “Fatemi due domande”. E lo hanno fatto! E queste domande hanno portato ad altre domande. Mi stupisce che le cose più piccole abbiano un impatto così grande!» Dopo un mese, le visualizzazioni per questo tweet erano arrivate a 14 milioni, e, a distanza di sei anni, è ancora presente e condiviso. Forse il cuore del problema è proprio questo: ci sono piccole cose, piccoli gesti, singole parole, che possono fare la differenza per i nostri studenti. 

L’identikit dello studente
Durante la seconda giornata, il mio punto di riferimento principale è stato John Hattie, direttore dell’Istituto di Ricerca sull’educazione presso l’Università di Melbourne, e il suo Visible Learning, presentato nel libro Apprendimento visibile, insegnamento efficace. La tesi principale di questo libro è che l’insegnante, per essere efficace, deve conoscere il proprio impatto sulla classe, perciò ho cominciato con un identikit particolare dello studente proposto proprio da Hattie: «Cosa significa essere un “buono studente” in questa classe?» I corsisti dovevano tentare di rispondere a questa domanda come avrebbero potuto rispondere i loro studenti, ma ho prima mostrato loro le risposte sorprendenti ottenute nelle mie classi l’anno scorso (secondo i miei ragazzi, il mio alunno ideale mi segue sui social!), dopodiché abbiamo discusso dell’illusione delle etichette che spesso usiamo con i nostri ragazzi. Per poter essere efficaci nel nostro lavoro, dobbiamo sapere cosa e come pensano gli studenti, perché ogni studente è un puzzle di motivazioni, strategie e immagini di sé. Usando come guida il libro di Hattie per descrivere le caratteristiche degli studenti, abbiamo fatto piccole deviazioni, parlando del curriculum dei fallimenti e della TED-talk di Josh Green, che ha raccontato di quando ha combattuto contro le voci nella nostra testa che gli dicevano che non era all’altezza. Josh ha sottolineato che queste voci di inadeguatezza non hanno il nostro timbro di voce, perché sono voci che «tendono a venire da poche persone selezionate nella nostra vita: un insegnante, un genitore, un bullo, un partner». (Noi insegnanti abbiamo il potere di fare la differenza sia in positivo che in negativo) Mentre stavo preparando queste lezioni, ho incontrato un ex alunno, ormai adulto, che mi ha parlato proprio di una di queste voci, un’insegnante che gli aveva detto: «Non combinerai mai nulla di buono nella tua vita!», profezia che, fortunatamente, lui è stato capace di smentire.
Sempre lasciandomi guidare dal libro di Hattie, ho proposto l’attività di valutazione dei fattori che hanno un impatto basso, medio o alto sul rendimento degli studenti, sottoponendo 16 dei 30 fattori da lui proposti, per riflettere su quali possano essere gli aspetti sui quali conviene investire, perché davvero possono fare la differenza. Ho svolto l’attività durante la lettura del libro e ho sbagliato il 50% delle risposte, ma le risposte dei corsisti non sono state molto lontane da questa percentuale. Conoscere l’impatto dei fattori di influenza permette di canalizzare le nostre energie verso ciò che può fare davvero la differenza e lasciar andare altre cose, che diventano uno spreco di tempo. Forse tutti sappiamo che la credibilità dell’insegnante agli occhi degli studenti ha un forte impatto, ma crediamo anche che la conoscenza disciplinare sia fondamentale, mentre le ricerche di Hattie ci dicono ben altro. Nel suo testo, Hattie cita Douglas Reeves, autore di più di 40 libri e più di 100 articoli sulla leadership e sull’educazione, il quale definisce la passione come l’«unica risorsa naturale rinnovabile»: quasi tutto ciò che un docente fa in classe può funzionare, ma è necessario investire parecchie energie nel rinnovo della nostra passione. 

Autocitazioni e non solo
Facendo riferimento alla mia esperienza, durante il percorso non ho potuto non fare alcune autocitazioni e ho cominciato con l’articolo scritto per il 177° Carnevale della Matematica ospitato da MaddMaths!: Inesauribile caparbietà. Nel confronto con gli studenti, non possiamo che sottolineare l’importanza della determinazione e della tenacia, messaggio che sembra essere stato colto dai miei alunni, come mostrano alcune delle loro risposte evidenziate nel post. La seconda autocitazione è stata la tesina che ho realizzato al termine del mio anno di formazione (l’ormai lontano a.s. 2004/2005): L’ansia, la matematica e la voglia di imparare, con la quale ho indagato l’impatto della matematica, in termini di emozioni e ansia, sui miei studenti di allora. Questo mi ha ricordato la TED talk di Joe Boaler, How you can be good at math, nella quale viene sottolineato come l’intelligenza sia un insieme di abilità in potenziale crescita e non, come tendiamo a pensare in cerca di un alibi, un insieme di abilità scarsamente modificabili. 

Il talento della matematica
In conclusione di percorso, ho voluto regalare un po’ di leggerezza, proponendo la vignetta allegata a questa newsletter e facendo un piccolo riferimento allo sport, in questa estate olimpica, così densa di esempi e riflessioni sul fallimento e sulla tenacia. Le Olimpiadi hanno permesso a tutti noi di riflettere anche sull’importanza del talento, ma chi ha a che fare con la matematica sa quanto il talento NON sia importante per crescere, ma sembri esserlo per gli alunni. Giusto questa settimana, una futura studentessa del nostro liceo mi ha detto: «Io e mia sorella non siamo portate per la matematica, tant’è che abbiamo scelto entrambe il classico. Quello davvero bravo in matematica è mio fratello, e infatti ha studiato al liceo scientifico!» Mi ha guardata con sospetto quando le ho detto che il talento non c’entra e spero che agli sportivi venga dato sempre più spazio quando dichiarano, come Gregorio Paltrinieri: «Non sono qui grazie al talento, sono qui grazie al sacrificio che faccio tutti i giorni» (ma io di questa citazione ho trovato traccia solo sui social…). Non posso non citare, a questo proposito, Katalin Karikò che, nella sua autobiografia Nonostante tutto. La mia vita nella scienza, scrive: «Non mi considero particolarmente intelligente. Nel corso degli anni ho conosciuto molte persone apparentemente dotate di una memoria fotografica che permetteva loro di imparare senza fatica. A uno dei miei compagni di scuola delle elementari bastava sentir dire una cosa una volta e non se la scordava più. Io no, non ho mai avuto questo dono. Ma già da piccola avevo capito una cosa fondamentale: quello che mi mancava a livello di abilità naturali, potevo compensarlo con lo sforzo. Potevo impegnarmi di più, applicarmi per un numero maggiore di ore, fare di più e farlo con maggiore attenzione.
Persino in prima elementare e in seconda elementare mi impegnavo con tutta me stessa nello studio. Cercavo di non sbagliare niente. Se commettevo un errore, ricominciavo da capo.
Studiavo.
Studiavo.
Studiavo.
E, coincidenza, a quanto pare il cervello è malleabile. Più lo esercitiamo, più lo rafforziamo. Quanto a me, mi sono esercitata a eccellere negli studi: era un esercizio attivo, come allenarsi a fare canestro per un aspirante atleta. Come un atleta, miglioravo. Man mano, per me la scuola è diventata un ambiente sempre più naturale. In terza elementare ero talmente immersa negli studi che ho iniziato a prendere sempre 5 [il massimo dei voti], e non ho più smesso.
Né, aggiungerei, ho mai smesso di esercitarmi.»

Non molto tempo fa mi sono imbattuta, sui social, in questo video di Ed Sheeran intitolato Hardwork is Ed Sheeran’s talent!, registrato durante il Jonathan Ross Show più di un anno fa. Cominciamo l’anno scolastico con questo video, per condividere una risata e una solenne verità! 

Buona matematica e buon cammino! Ci sentiamo tra TRE settimane!

Daniela

 

PS: Traduzione della vignetta:
Piperita Patty: «Sto ancora avendo problemi a scuola, Ciccio… Hai qualche suggerimento?»
Charlie Brown: «Fai i compiti… Non dormire in classe… E non provare mai a consegnare il riassunto di un libro se non l’hai letto…»
Piperita Patty: «Odio parlare con te, Ciccio»

PPS: Quello presentato in questa newsletter non è che un riassunto di quanto detto nel corso delle sei ore di lezione. Per averne la versione completa, basta scaricare gli allegati. In caso si desideri avere il file Power Point usato per la presentazione, lo si può richiedere inviando una mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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