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Mercoledì, 20 Giugno 2018 17:58

Autobiografia

Se si parla di libri sulla vita di Marie Curie non può non venire in mente la corposa biografia di Susan Quinn di oltre 500 pagine che, proprio per il suo volume, sembra incompatibile con la presente Autobiografia. Alla richiesta di scrivere la propria autobiografia, infatti, Marie Curie rispose: «È una piccola storia semplice, senza grandi eventi. Sono nata a Varsavia, da una famiglia di insegnanti. Ho sposato Pierre Curie e ho avuto due figlie. Ho lavorato in Francia.» Lo straordinario valore scientifico di Marie Curie sembra scontrarsi, in questo caso, con la sua modestia, anche se tra le poche pagine (poco meno di 60) di questa autobiografia, c’è anche tanto altro.

Edito da Castelvecchi Editore nella Collana Le Navi, la pubblicazione risale all’anno scorso, ma l’edizione originale delle Autobiographical Notes risale al 1923, quando l’editore Macmillan le pubblica come appendice alla biografia di Pierre Curie, scritta proprio dalla moglie. L’introduzione dell’epoca fu curata da Marie Mattingly Meloney, la giornalista americana che aveva promosso la raccolta fondi americana per donare alla scienziata un grammo di radio e che aveva chiesto a Marie Curie di scrivere qualcosa di se stessa. Dell’introduzione di questa edizione italiana si è occupata Daniela Monaldi che parla di «una scelta ponderata di pubbliche relazioni da parte di un’amministratrice sapiente, pragmatica ma coerente»: in altre parole, nonostante la sua riservatezza, la Curie accetta di raccontarsi per poter raccogliere fondi.

L’autobiografia è divisa in quattro capitoli: il primo capitolo è dedicato alla sua famiglia di origine, all’infanzia e alla giovinezza, al patto con la sorella per garantirsi la possibilità di proseguire gli studi in Francia, fino al suo incontro con Pierre. Il secondo capitolo è dedicato al matrimonio, alla ricerca scientifica portata avanti con Pierre, alla tragica morte dell’amato. Il terzo capitolo è dedicato all’impegno durante la Prima Guerra Mondiale, fino ad arrivare al viaggio del 1921 negli Stati Uniti e l’ultimo capitolo è proprio il racconto di questo viaggio. All’interno del percorso manca il riferimento alla delusione d’amore giovanile e manca tutto ciò che riguarda la storia che la vide protagonista dello scandalo con Paul Langevin.

La Curie è attenta a mettere in evidenza il proprio amore per la scienza e si propone, per certi aspetti, come modello per le donne che vogliono seguire un percorso impegnativo come quello scientifico. Come ci ricorda la Monaldi, «Non volle esporre nulla […] della sua vita intima al di là della sua adorazione di Pierre e della profondità degli affetti familiari.»

Vista questa premessa, ci si aspetterebbe uno stile scarno e quasi frettoloso, ma non è così, perché la celebre scienziata non avrebbe potuto realizzare qualcosa di impreciso: Marie Curie approfitta dell’occasione per dirci anche molto altro di sé, delle sue scelte, della sua fede nella scienza. «Non si può sperare di costruire un mondo migliore se non si migliorano gli individui. A questo scopo, ciascuno di noi doveva lavorare al proprio miglioramento e al tempo stesso condividere una responsabilità comune verso tutta l’umanità, essendo nostro particolare dovere aiutare coloro cui credevamo di poter essere maggiormente utili.» scrive, parlando dell’intenso lavoro che portò lei e Pierre a ottenere il Premio Nobel.

La lettura è interessante e alla portata di tutti ed è un modo per entrare veramente in contatto con Marie Curie, con la sua idea di scienza, con le sue idee in generale. È assolutamente consigliato a quanti vogliano conoscere questa donna unica e straordinaria.

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Mercoledì, 20 Giugno 2018 17:49

Radioattività in famiglia

«Radioattività in famiglia» è uno dei libri della collana “Donne nella scienza” di Editoriale Scienza: scritto da Simona Cerrato e illustrato da Grazia Nidasio, è stato pubblicato nel 2003. Simona Cerrato, che ha vinto il premio Andersen nel 2006 con il libro «L’universo di Margherita», anch’esso pubblicato con Editoriale Scienza, mostra tutta la sua abilità nel raccontarci, in prima persona, la vita di Marie Curie: la sua laurea in fisica le consente di trattare con competenza l’aspetto scientifico della vicenda, mentre la sua esperienza con la divulgazione scientifica è una garanzia di semplicità e chiarezza.

La vicenda si apre con la conferenza Solvay di Bruxelles del 1933, nel corso della quale Irène e Frédéric Joliot-Curie vengono attaccati da Lise Meitner: Irène è arrabbiata e ferita, minaccia di abbandonare lo studio della fisica e sembra proprio di sentire la vera Marie, che la sprona ad andare avanti, «Non ti scoraggerai mica alla prima difficoltà… Se si sbaglia si deve avere il coraggio e la forza di ricominciare. La scienza è così, ed è anche una gara a chi arriva primo. Certo la cosa più importante, il motore che ci spinge ad andare avanti giorno dopo giorno, è il desiderio di capire e conoscere sempre meglio la natura.» Alle proteste di Irène che, come tutti i figli, non riesce a vedere la propria madre come una persona completa, con tutte le sue luci e le sue ombre, ma vede solo la scienziata di successo che, apparentemente, non ha dovuto affrontare nessuna difficoltà, Marie risponde raccontandole la sua vita, i suoi successi ma anche i suoi fallimenti. Il racconto viene chiuso dalla stessa Irène: l’autrice immagina una sua lettera alla madre, una lettera che racconta il seguito della storia, con il premio Nobel conquistato anche da Irène e dal marito, l’anno dopo la morte di Marie Curie. L’ultimo paragrafo è il racconto di Hélène, la figlia di Irène: anch’ella scienziata, anche se non nota come la madre e la nonna, racconta la morte della madre.

Come gli altri libri della collana, anche «Radioattività in famiglia» si chiude con degli approfondimenti: alcune foto, alcune brevi notizie biografiche di scienziati contemporanei, piccoli approfondimenti sulla teoria atomica e la radioattività, alcuni documenti di Pierre e Marie, tra i quali i discorsi al conferimento del Premio Nobel, ed infine un’intervista a Elisa Molinari, all’epoca della pubblicazione del libro Direttrice del Centro Nazionale sulle NanoStrutture e i BioSistemi sulle Superfici di Modena.

Il libro è dedicato ai ragazzi delle medie, ma la lettura è consigliata davvero a tutti: lo stile leggero e la necessaria semplificazione non sminuiscono la vicenda unica e straordinaria di una donna che nessuno può permettersi di ignorare.

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Venerdì, 02 Agosto 2013 21:11

Gli atomi di Boltzmann

TRAMA:
Negli ultimi anni del XIX secolo, nessuno era in grado di definire un atomo e la dichiarazione di Ernst Mach, nel gennaio del 1897, a una seduta dell’Accademia Imperiale delle Scienze di Vienna, «Non credo che esistano gli atomi!», ben si inserisce in questo quadro di incertezza. Al contrario, Boltzmann «era animato da una fede incrollabile nell’ipotesi atomica», al punto tale che il suo lavoro in fisica fu centrato su quest’unico tema. Da una legge fisica che era una semplice relazione quantitativa tra fenomeni osservabili, gli scienziati dovettero andare al di là delle apparenze e, da questo punto di vista, Boltzmann fu un pioniere: capì che temperatura e pressione non erano che l’espressione del movimento degli atomi e introdusse concetti teorici completamente nuovi: «Mostrò che le leggi della fisica potevano essere fondate su una base probabilistica, e nondimeno rimanere attendibili». Proprio per la novità delle intuizioni di Boltzmann, le sue idee incontrarono una vivace opposizione.
 
Già nel dicembre del 1845, Waterston inviò un manoscritto alla Royal Society, nel quale ipotizzava che qualunque gas fosse costituito da un gran numero di piccolissime particelle, che egli chiamò molecole, in movimento disordinato. Una proposta simile era giunta, venticinque anni prima, da Herapath, anche se la sua trattazione non era così articolata. Nel 1738, Daniel Bernoulli aveva trovato una relazione teorica tra la pressione e l’energia di vibrazione degli atomi del gas, ma la sua teoria non aveva suscitato particolare interesse e ben presto era stata dimenticata. La teoria cinetica divenne una teoria di tutto rispetto grazie ai personaggi autorevoli che la proposero successivamente, ovvero Clausius, Maxwell e Boltzmann: «Clausius, il più anziano dei tre, aveva avviato la teoria cinetica alla rispettabilità, e Maxwell le diede contributi fondamentali, quando non era impegnato in altre imprese di carattere teorico. Ma fu Boltzmann a fare del pieno sviluppo della teoria cinetica la ragione della propria esistenza e a prendere sulle proprie spalle i passi falsi della teoria non meno dei suoi successi.» 
Nel 1863, Ludwig Boltzmann si iscrisse all’università di Vienna, dove ebbe la fortuna di incontrare alcuni tra i fisici più aperti alle nuove idee dell’Europa continentale: il loro precoce interesse per queste innovazioni tecniche fu un grande stimolo per lui. Nel 1866, Boltzmann conseguì il dottorato e il nuovo direttore dell’Istituto di Fisica di Vienna, Josef Stefan, vedendolo dotato di grandi potenzialità, lo assunse come assistente. Nel frattempo, il lavoro di Clausius, con la definizione di libero cammino medio, era stato sviluppato da Maxwell con la distribuzione delle velocità e, nel 1868, Boltzmann pubblicò una memoria che conteneva la dimostrazione della formula di Maxwell e proponeva una legge generale e una giustificazione fisica per ciò che fino a quel momento era stato soprattutto un ragionamento di tipo matematico. Per compiere ulteriori progressi con la teoria cinetica, utilizzò strumenti matematici raffinati, applicò le leggi della meccanica di Newton, utilizzò le leggi della probabilità e la statistica segnando «un punto di svolta nell’evoluzione della fisica teorica». Non si rese conto, in un primo momento, della «radicalità della rivoluzione che stava innescando». Purtroppo sembra che nessun fisico avesse la capacità e l’interesse per seguire i progressi del lavoro di Boltzmann: solo Maxwell, in Inghilterra, si era reso conto dell’importanza crescente di statistica e probabilità in fisica. 
Con la sua memoria pubblicata a Vienna nel 1872, Boltzmann esponeva la sua analisi in modo particolareggiato, pervenendo a un’equazione differenziale sorprendentemente semplice. Presentando il teorema di minimo, noto come teorema-H, diede con la grandezza H una definizione cinetica dell’entropia. Maxwell, con l’idea del diavoletto, per primo comprese che il secondo principio della termodinamica aveva soltanto una certezza di carattere statistico. I critici conclusero che le leggi della termodinamica non erano leggi vere ma soltanto approssimate, valide «quasi sempre», ma Boltzmann riuscì a quantificare l’improbabilità del flusso di calore da un corpo freddo a uno caldo e ne ricavò forse il risultato più significativo della sua carriera. 
Intanto, lavorando come insegnante a Graz, Boltzmann si lamentava di essere troppo lontano dal centro dell’attività scientifica e di soffrire per la mancanza di stimoli intellettuali. La morte di Kirchhoff nel 1887 liberò una cattedra di prestigio a Berlino e Boltzmann venne raccomandato per il posto. Egli stesso anelava al trasferimento ma continuò a temporeggiare e solo la successiva chiamata di Monaco di Baviera lo trovò consenziente: ebbe un proprio istituto di fisica teorica, a partire dall’autunno del 1890. Si trasferì poi, dal settembre del 1894, all’Università Imperiale di Vienna: «All’età di cinquant’anni aveva ottenuto il posto più prestigioso cui un fisico potesse aspirare nella sua città natale, divenendo direttore dell’istituto cui era legato da un affettuoso ricordo, e dove, circa tre decenni prima, il suo giovanile ingegno aveva cominciato a risplendere, e la sua carriera scientifica era iniziata sotto i più promettenti auspici.»
La filosofia di Ernst Mach, che riteneva che la scienza dovesse fondarsi su fatti osservabili, continuava a sostenere che gli atomi erano un’invenzione e cominciava ad avere un seguito: Boltzmann cominciò a sentirsi infelice e incompreso.
Negli ultimi cinque anni del XIX secolo, la fisica fu sconvolta da una serie di scoperte inattese, con nuove forme di energia e di materia, che divennero la base di quasi tutta la nuova fisica del XX secolo. Nel 1905 Albert Einstein pubblicò quattro famose memorie che cambiarono per sempre il volto della fisica: le prime due memorie «dimostravano l’utilità dei metodi statistici di Boltzmann in un’area nuova e fornivano una prova quasi tangibile dell’esistenza degli atomi», con l’elegante spiegazione del moto browniano. A Vienna, Boltzmann non era informato dei più recenti lavori: era ancora impegnato nel suo scontro con Mach. 
Nel maggio del 1906, funzionari dell’università riconobbero che Boltzmann non era più in grado di insegnare e il 5 settembre del 1906, il suo corpo fu rinvenuto da una delle figlie impiccato all’intelaiatura della finestra nella camera di un albergo di Duino. 
Negli anni successivi, la fisica mutò radicalmente: ormai l’esistenza degli atomi non era più messa in dubbio. Boltzmann lasciò in eredità i risultati scientifici che ponevano le fondamenta della teoria quantistica e per certi versi anticipavano la dinamica del caos.
 
COMMENTO:
“Una biografia organica e completa di Ludwig Boltzmann deve ancora essere scritta, e questo libro non si propone di colmare tale lacuna”. Nella prefazione, l’autore ci informa che i particolari della vita di Boltzmann, soprattutto quelli della prima parte, sono scarsi e provengono dai ricordi e dagli aneddoti di coloro che lo conobbero. Il libro è in ogni caso un’ottima lettura perché, oltre a descriverci la vita di Boltzmann, ci dà uno spaccato dell’Europa della fine del XIX secolo – in particolare dell’impero austro-ungarico – e ci permette di cogliere fino in fondo i mutamenti scientifici che hanno interessato quel periodo, con la nascita della fisica teorica e lo scontro con la filosofia di Mach, così influente sulla ricerca scientifica del periodo. 
Le tematiche presenti nel libro sono ancora attuali: la vicenda umana di Boltzmann non è diversa da quella di una qualsiasi persona che lotta per le proprie idee e ne è alla fine sopraffatto e il dibattito moderno sulle supercorde, dal punto di vista filosofico, non è molto diverso da quello antico sugli atomi. Interessanti, inoltre, sono le vite di Maxwell, Mach, Gibbs, Planck, che fanno da corollario a quella di Boltzmann.
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