«Il computer è donna», pubblicato dalla casa editrice Dedalo, nel 2019, è l’ultima opera di Carla Petrocelli, docente di storia della rivoluzione digitale presso l’Università di Bari. Il libro è stato pubblicato nella collana La scienza è facile, ovvero in una serie di «volumi divertenti e indispensabili per conoscere i principi fondamentali della scienza». Nella sua prefazione Mario Tozzi, geologo noto per la sua attività di divulgatore scientifico e conduttore televisivo, parla di costanza, pazienza, passione e intraprendenza nella sua descrizione del ruolo delle donne nella ricerca scientifica. Le donne di cui parla Carla Petrocelli, usando sempre le parole di Mario Tozzi, «sono donne che hanno dovuto lottare contro pregiudizi e soprusi che hanno reso il loro cammino pieno di ostacoli, sebbene non abbiano minimamente scalfito la loro tenacia.»
Suddiviso in sei capitoli, il libro ripercorre la storia dell’informatica tra Ottocento e Novecento, cominciando con Ada Byron, contessa di Lovelace, che è nota come prima programmatrice della storia e la cui vita sfortunata, unita ai suoi natali così particolari (è la figlia legittima di Lord Byron), la rende particolarmente affascinante e interessante. Nonostante sia entrata in contatto con i grandi matematici del tempo, non ha avuto modo di farsi conoscere realmente sia per il ruolo rivestito dalle donne all’epoca, sia perché morta troppo presto. Il secondo capitolo è dedicato a Grace Hopper. Definita dal primo dei suoi capi “uno dei miei uomini migliori”, a Grace dobbiamo, ad esempio, il termine bug, quando si parla di un difetto nei computer e fare debugging, per lei, significava togliere con le pinzette una falena che era finita in uno dei relè. Capace di fare dell’attacco a Pearl Harbor un’occasione per «dare una svolta alla sua vita», ebbe un ruolo fondamentale nella stesura del primo manuale di programmazione e con il suo approccio sistematico contribuì alla creazione del linguaggio COBOL. Il terzo capitolo è dedicato alle donne che, durante la seconda guerra mondiale, venivano reclutate come “computatrici”. All’epoca, sulla stampa fecero la loro comparsa le Refrigerator Ladies che «esibivano i loro preziosi elettrodomestici grazie ai quali si erano potute trasformare in eleganti donne borghesi» e le donne che collaborarono attivamente nella realizzazione dell’ENIAC di fatto sembravano avere lo stesso ruolo delle Refrigerator Ladies: fanno la loro comparsa in alcune fotografie, ma sempre in secondo piano, come se non avessero avuto alcuna utilità. La realtà era che «il lavoro richiedeva un altissimo livello di specializzazione matematica, era complesso, ripetitivo e tedioso, ma venne considerato particolarmente adatto alle donne, che lo svolgevano in modo più accurato e rapido dei colleghi uomini.» Il quarto capitolo è dedicato a Hedy Lamarr: imprigionata nel ruolo di stella di Hollywood, ha «una storia di ingegno e acume messi da parte, ignorati e trascurati». Vissuta «tra finzione e realtà», solo sul finire della sua vita ha visto riconosciuto il suo ruolo di inventrice: il Secret Communication System è diventato una «componente sempre più importante della telefonia mobile», garantendo la privacy agli utenti. Il quinto capitolo, dedicato alle biblioteche, evidenzia il ruolo dell’informatica nella disparità di genere: «se applicati alle competenze degli uomini, i computer rappresentarono un upskilling, un miglioramento delle loro capacità, ma si rivelarono un deskilling in riferimento al lavoro femminile». Il sesto capitolo costituisce un elenco di «protagoniste sconosciute»: nel 1967 le Computer Girls vennero celebrate in un articolo di Cosmopolitan, tanto da lasciar pensare che «l’epoca della moglie/casalinga fosse arrivata al capolinea». Ma con la Guerra Fredda e la corsa allo spazio, le donne ritrovarono il loro ruolo subalterno, addirittura relegate «in angusti locali sotterranei, a temperature improponibili». Tra le protagoniste, Margaret Hamilton con il codice per l’Apollo 11, Dorothy Johnson Vaughan e le colored computer celebrate recentemente dal film “Il diritto di contare”, Mary Kenneth Keller, non solo abile informatica ma anche modello per le sue allieve, Karen Spärck Jones, che ha contribuito alla nascita dei motori di ricerca, Anita Borg, che «propone l’apertura di uno spazio riservato solo alle donne del settore per supportare, guidare, incoraggiare e condividere risorse e idee» e Evelyn Berezin, che brevettò un computer per facilitare il lavoro di segreteria.
Carla Petrocelli, con uno stile semplice, che non manca di accuratezza e precisione, ci accompagna in questo percorso nella storia dell’informatica, un percorso necessariamente declinato al femminile, nonostante si conosca ancora così poco il ruolo fondamentale delle donne. Fin dall’inizio, le donne vennero destinate a un ruolo secondario: gli uomini ritenevano che il lavoro di progettazione della macchina fosse più importante di quello di programmazione, tanto che i termini hard e soft lasciavano «pensare che i lavori “duri” erano solo appannaggio maschile» ed erano «opposti a quelli “morbidi”, più femminili». Quando, in un secondo tempo, ci si rese conto dell’importanza della programmazione, le donne vennero estromesse anche da questo compito. La storia dell’informatica, breve in quanto molto recente nell’ambito della storia umana, è un esempio di come siano state trattate le donne a più livelli: destinate a un ruolo di secondo piano, solo recentemente è stato possibile ricostruire il loro contributo fondamentale. Per questo motivo il libro è consigliato a quegli uomini che ancora fanno fatica a riconoscere il ruolo delle donne nella storia e a quelle donne, giovani soprattutto, che hanno bisogno di modelli e di capire l’importanza del proprio lavoro. Un piccolo libro che non ruberà molto tempo per la lettura, ma che contribuirà a cambiare il nostro modo di leggere la realtà.
«Bisognerebbe urlare della loro esistenza, renderle vive e raccontarle decine, centinaia, migliaia di volte perché sia dato loro il riconoscimento che meritano, per non sentire i loro nomi solo occasionalmente.»