TRAMA:
Una biografia di Ada Lovelace, che l’autrice immagina ci venga raccontata dalla stessa protagonista ormai al termine della sua breve vita: ripensa ai figli ormai lontani, all’inesistente rapporto con il padre, il famoso poeta George Byron, rivive il rapporto conflittuale con la madre, che costituisce la parte centrale del libro. Infatti, Ada non riesce a svincolarsi dalla sua influenza: fin dalla sua infanzia, ha predisposto per lei un programma impegnativo fatto di studio e povero di libertà, per paura che potesse scegliere di fare la scrittrice o, peggio ancora, la poetessa, ma anche da adulta continua a influenzare le sue scelte. Nonostante sia così ostinatamente presente nella sua vita, la madre non le dà però l’amore di cui ha necessità, perché, come ci spiega con un diario, è più importante “porre le basi alle buone abitudini e prevenire che se ne formino di pericolose”, risparmiandosi “il pericolo di amare, la paura dell’interdizione, il fastidio dello scontro.”
L’ingresso in società permette a Ada di incontrare personalità importanti e il 5 giugno del 1833, quasi diciottenne, incontra Charles Babbage a una delle serate organizzate proprio a casa del matematico: “Finalmente qualcuno che non ripete le stesse cose degli altri. Che si sforza di capire i problemi e di farli comprendere usando immagini fantasiose o comunque mai banali. Quella sera, il padrone di casa ci ha parlato della sua Macchina delle differenze, una meraviglia dell’intelletto umano.” La Macchina delle differenze è un congegno pensato per eseguire i calcoli e sostituirsi alle persone nell’esecuzione di questo compito. La madre non capisce la passione della figlia per le scoperte di Babbage, che ritiene “prive di fondamento e paradossali”: da questo punto di vista, Ada mostra di essere all’avanguardia, in anticipo sui tempi. Durante le sue apparizioni a Corte, Ada incontra anche William King, conte di Lovelace, che sposa nel 1835: il conte sosterrà le sue passioni e i suoi progetti fino alla fine.
Charles Wheatstone, fisico e inventore, propone a Ada di tradurre, per una rivista scientifica, la nuova presentazione della Macchina analitica realizzata da un giovane militare italiano, il capitano Luigi Menabrea. L’articolo è scritto in francese e si basa sull’esposizione che lo stesso Babbage ha fatto al Congresso degli scienziati italiani di Torino nel 1840. Babbage le suggerisce di non limitarsi alla traduzione, ma di aggiungere delle note per chiarire alcuni concetti e al termine l’articolo è tre volte più lungo dell’originale e al suo interno c’è anche il primo algoritmo pensato per i computer, per il calcolo dei numeri di Bernoulli.
Il testo si conclude esattamente come era iniziato con un riferimento alla Grande Esposizione Universale: proprio l’anno prima della morte di Ada, è stato eretto a Londra il Crystal Palace, installato a Hyde Park, uno degli esempi più celebri di architettura del ferro. Nonostante il progresso in molti campi, le proposte di Babbage per la sua Macchina analitica non vennero ascoltate, visto che la sua invenzione non trovò posto nella Grande Esposizione universale e l’inventore non trovò nemmeno i finanziamenti necessari per far andare a buon fine il progetto.
COMMENTO:
Con le sue illustrazioni e con un linguaggio semplice, il libro è adatto anche ai ragazzi delle medie. La voce narrante di Ada ci illustra, senza falsa modestia, il contributo dato alla matematica e all’informatica: dalle pagine, traspare la sua passione per l’invenzione di Babbage, che – a suo dire – potrebbe rivoluzionare il mondo in cui viviamo e il nostro modo di gestire la scienza. Ada ha davvero precorso i tempi e, in questo libro, ci presenta tutto il fascino degli inizi.
TRAMA:
La lettera di Pascal, datata 24 agosto 1654, è l’esempio di come un singolo documento matematico possa cambiare il corso della storia: ha infatti segnato la nascita della moderna teoria della probabilità e al giorno d’oggi, affari, politica, difesa, guerra, scienza, ingegneria, medicina, sport, finanza, edilizia, trasporti, attività ricreative e molti altri aspetti della vita quotidiana sono regolati da calcoli probabilistici: “Ciò che ora diamo per scontato fu un immenso passo avanti nel pensiero umano, reso possibile soltanto da un significativo sforzo intellettuale”.
Il quesito affrontato da Pascal e Fermat è stato formulato per la prima volta nel 1494, nel libro di Luca Pacioli Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita: in che modo dei giocatori dovrebbero spartirsi la posta, qualora fosse per loro necessario abbandonare la partita, prima del suo termine? Questo è noto come il problema dei punti e per risolverlo è necessario saper guardare al futuro. A Pascal e Fermat occorsero diverse settimane di intenso lavoro intellettuale per risolvere il problema, a dimostrazione del fatto che “anche gli esperti possono trovare difficile padroneggiare una nuova idea matematica”. Pacioli aveva ipotizzato che la soluzione fosse quella di dividere la posta in base alla situazione raggiunta di fatto, ma il ragionamento non è corretto, come venne dimostrato nel 1539 da Girolamo Cardano. Il problema venne proposto a Pascal da Antoine Gombaud, un giocatore d’azzardo. Pascal trovò una soluzione, ma, non sicuro della correttezza del ragionamento, chiese a Fermat se condivideva la sua strategia.
Nello scambio epistolare che seguì, Pascal dimostra di essere un matematico incredibilmente dotato, ma, come non fatica a riconoscere, Fermat era ancora meglio. I due uomini adottarono approcci diversi alla soluzione del problema: entrambi i metodi erano corretti, ma la soluzione di Fermat era di gran lunga la migliore. La soluzione di Pascal “è difficile da seguire anche per un matematico di professione”, mentre l’approccio di Fermat, “che va direttamente al fulcro del problema e fa soltanto ciò che è richiesto per ottenere la risposta cercata, dà prova di un’autentica genialità”.
“Pascal e Fermat non avrebbero mai compreso pienamente che il loro scambio epistolare avrebbe rivelato all’umanità un modo del tutto rivoluzionario con cui gettare un’occhiata nel futuro, cambiando drasticamente la vita umana”. Per loro si trattava probabilmente solo di un rompicapo matematico, senza alcuna utilità per la realtà quotidiana.
Nello stesso anno della morte di Pascal, il 1662, il libro Natural and Political Observations Made Upon the Bills of Mortality di John Graunt cambiò ulteriormente il modo di vedere la teoria della probabilità, segnando la nascita della statistica moderna. “Graunt e il suo pamphlet fecero uscire la teoria della probabilità di Pascal e Fermat dalle sale da gioco per portarla nella realtà quotidiana”:
Nel 1657, Christiaan Huygens pubblicò De ratiociniis in ludo aleae, considerato negli anni successivi un testo fondamentale per la teoria della probabilità: Huygens superò il lavoro di Pascal e Fermat, applicando i metodi della teoria della probabilità nella vita reale, con l’introduzione del concetto di “aspettativa”.
Il lavoro venne portato ulteriormente avanti dalla famiglia Bernoulli: Jakob enunciò la legge dei grandi numeri, dimostrando che la frequenza relativa di un evento permette di predirne la probabilità tanto più accuratamente, quanto più numerosi sono i casi osservati. Nikolaus pubblicò, nel 1709, il libro De usu artis conjectandi in jure, nel quale discuteva la stima della durata della vita umana, segnando un importante passo avanti nella gestione del rischio. Daniel consentì la soluzione dell’enigma noto come paradosso di San Pietroburgo, osservando il modo in cui la gente valutava soggettivamente i rischi e compiendo una profonda osservazione riguardo all’utilità.
Le idee di Nikolaus Bernoulli vennero riprese da Abraham de Moivre, che nel 1733, con il libro Doctrine des chances, mostrò come un insieme di osservazioni casuali si distribuiscono attorno al valore medio, ovvero studiò la distribuzione normale, che otto anni dopo Karl Friedrich Gauss comprese di poter usare per stimare il valore dei dati. La misura di de Moivre, nota come deviazione standard, permise di giudicare se un insieme di osservazioni fosse sufficientemente rappresentativo dell’intera popolazione.
L’ultimo personaggio della storia è Thomas Bayes: riconosciuto oggi come una mente matematica brillante, durante la sua vita non pubblicò nessuno scritto originale, ma furono notate le sue abilità scientifiche, visto che era un membro della Royal Society. Il suo approccio alla probabilità fu rivoluzionario e aveva una vasta gamma di applicazioni, visto che permetteva di rivedere la stima di una probabilità alla luce di nuove informazioni. Ignorato per quasi due secoli dagli statistici e dai teorici della probabilità, il metodo di Bayes divenne sempre più diffuso a partire dagli anni Settanta del Novecento, grazie anche alla disponibilità di potenti computer che hanno reso possibile eseguire iterativamente il processo. Il punto di forza dell’approccio di Bayes è nel fatto che può guidarci quando le nostre intuizioni sono sbagliate.
COMMENTO:
Siamo abituati a pensare ai grandi matematici del passato come a persone che non hanno mai avuto alcuna difficoltà a capire una formula, un procedimento mentale: Pascal è la dimostrazione che anche i grandi hanno avuto le loro difficoltà. Ma la chiave di tutto, la differenza tra noi e i grandi, sta forse nella tenacia, nella volontà di capire, di aprire nuovi orizzonti.
Un libro semplice, anche per non addetti ai lavori, che, a partire dalla lettera di Pascal del 1654, traccia la storia del calcolo delle probabilità fino alla nota formula di Bayes e fino alle intuizioni di de Finetti. Consigliato a tutti coloro che non nutrono grande simpatia per questa branca della matematica, solo all’apparenza semplice, ma in realtà complicata e affascinante, nella stessa misura in cui mette in crisi le nostre intuizioni e le nostre errate convinzioni.
TRAMA:
«È stata una vita straordinaria, la sua. Nato in una foresta pluviale nella parte più a sud del globo terrestre, Ernest Rutherford era, detto molto semplicemente, un genio. Ha cambiato per sempre il modo in cui vediamo il mondo e noi stessi. È stato il primo a mostrare che gli elementi non sono immutabili: possono trasformarsi in altri elementi, naturalmente, secondo quel processo per il quale usiamo le parole “decadimento radioattivo” e “tempo di dimezzamento”. Ha scoperto la struttura nucleare dell’atomo, dando inizio a un’età “eroica” per la fisica. E ha “fatto l’atomo a pezzi”. Nel 1932 lui e i suoi “ragazzi” furono i primi a farlo, o, più precisamente, furono i primi a frantumare il nucleo dell’atomo e a svelare e liberare forze mai neppure immaginate.»
Grazie ad una borsa di studio istituita nel 1851, l’anno dell’Expo londinese, Rutherford – nato il 30 agosto del 1871 in Nuova Zelanda – ottenne, nel 1895, di continuare i suoi studi in Inghilterra. Collaborando con Thomson, si occupò del passaggio di elettricità nei gas. Ovunque gli scienziati stavano trovando, o comunque cercando, gli esperimenti e le teorie matematiche giuste per descrivere e determinare un mondo fino a quel momento inaccessibile all’occhio umano e ai microscopi. Thomson aveva ideato un modello di atomo, il più accreditato durante il primo decennio del XX secolo, ma nuovi esperimenti sembrarono suggerire che l’atomo consistesse principalmente di spazio vuoto.
A Rutherford fu offerta una cattedra di fisica sperimentale a Montreal: qui il fisico avrebbe avuto una posizione di responsabilità e avrebbe potuto dedicare più tempo alla ricerca. Collaborando con Soddy, assistente nel dipartimento di chimica, riuscirono a provare l’ipotesi della disintegrazione atomica come spiegazione della radioattività, dicendo cose mai dette prima, ma l’isolamento coloniale di Montreal rendeva più difficile accettare la rivoluzione di Rutherford a molti. Ottenne il premio Nobel nel 1908, «per le sue ricerche relative alla disintegrazione degli elementi e alla chimica delle sostanze radioattive».
Il 24 maggio del 1907, ebbe finalmente l’occasione di tornare in Europa in via definitiva: a Machester, il laboratorio più importante in Inghilterra dopo il Cavendish, dove ebbe in eredità un team di laboratorio invidiabile.
Rutherford puntava a guardare all’interno dell’atomo, del quale si conoscevano solo gli elettroni, per la cui scoperta era stato insignito del Nobel Thomson nel 1906. All’inizio di dicembre del 1910, Rutherford aveva chiara in mente l’immagine dell’atomo e di quello che nel 1913 battezzò nucleo: intuì che, in proporzione, il nucleo nell’atomo era come una capocchia di spillo al centro della cattedrale di St. Paul. Rutherford espose i suoi risultati in un articolo il 7 marzo del 1911. Il modello fu accolto come uno dei tanti, ma non convinse: appariva instabile e solo Bohr, dopo qualche mese, mostrò come potesse essere stabile. Il modello di Rutherford-Bohr, frutto di esperimenti ispirati e teorie geniali, rappresentava allo stesso tempo una fine e un inizio: l’inizio della fine della fisica da bancone di Rutherford, quella fatta con ceralacca e cordini. La fisica classica, su cui si poteva letteralmente mettere le mani, stava lasciando il passo alle lavagne; i nuovi esperimenti, tesi a “entrare” nel nucleo, avrebbero richiesto macchine gigantesche in grado di accelerare e manipolare le forze e i corpi descritti e dominati per primi da Isaac Newton, Michael Faraday, J.J. Thomson e dallo stesso Rutherford.
La prima guerra mondiale toccò pesantemente i giovani impegnati nel laboratorio di Rutherford: chi morì in azione, chi rimase ferito, chi, come Chadwick venne internato in un campo di prigionia tedesco. Rutherford invece sviluppò ciò che ora chiamiamo sonar.
Nel marzo del 1919, Thomson abbandonò la direzione del Cavendish e Rutherford ottenne il suo posto.
Nel 1920, Rutherford chiamò protone la particella che usciva dal bombardamento dei nuclei di azoto con le particelle alfa.
Nel frattempo, si era aperta una grande competizione internazionale per frantumare l’atomo e farlo esplodere. Erano impegnati: il laboratorio del Cavendish, la Carnegie Institution di Washington, la University of California, l’Institute of Technology di Pasadena e il Kaiser Wilhelm Institute di Berlino.
Il 1932 fu l’anno dei trionfi per il team di Rutherford: Chadwick, scoprì il neutrone e Walton e Cockcroft videro per la prima volta l’atomo fatto a pezzi, con i nuclei di litio, di massa 7, colpiti da un protone, di massa 1, che si disintegravano in due particelle alfa (nuclei di elio), di massa 4. L’atomo di litio era stato spezzato. Nella violenza dell’evento una parte della massa – 0,02 unità di peso atomico – era stata trasformata in energia. Numericamente si trattava della quantità prevista dalla formula E = mc2. L’energia prodotta era uguale alla massa moltiplicata per la velocità della luce al quadrato. Era la prima prova sperimentale della teoria della relatività di Albert Einstein del 1905.
L’ascesa al potere di Hitler aveva indotto alla fuga millecinquecento scienziati tedeschi, epurati dalle università e dai laboratori: Rutherford spese parecchie energie per trovare un lavoro agli studiosi tedeschi, che lui aveva ribattezzato “gli studiosi erranti”.
Dopo le vittorie conseguite, Rutherford cominciò ad allontanarsi dal Cavendish, prendendosi lunghe pause per stare con i nipoti (avuti dall’unica figlia, morta nel 1930 dando alla luce il quarto figlio): era chiaro che il suo mondo stava cambiando.
Morì il 19 ottobre del 1937, dopo una breve agonia in seguito a una caduta. Le ceneri di Rutherford riposano nell’abbazia di Westminster, vicino alla tomba di sir Isaac Newton.
COMMENTO:
Leggendo il libro, si ha a volte l’impressione di sentir tuonare la voce di Rutherford, nei numerosi aneddoti che lo vedono come protagonista, che ci guidano alla scoperta del mondo subatomico. Grande uomo, grande personaggio, di un’intelligenza eccezionale e vivace, è stato anche un grande maestro, perché numerosi furono i suoi collaboratori che vinsero il premio Nobel: Frederick Soddy (chimica, 1921), Niels Bohr (fisica, 1922), Francis William Aston (chimica, 1922), Paul Dirac (fisica, 1933), James Chadwick (fisica, 1935), Georg von Hevesy (chimica, 1943), Otto Hahn (chimica, 1944), Edward Appleton (fisica, 1947), Patrick Blackett (fisica, 1948), John Cockcroft ed Ernest Walton (fisica, 1951), Pyotr Leonidovich Kapitsa (fisica, 1978).
Questo libro ci racconta la sua vicenda personale, le vicende di questi giovani studiosi e, soprattutto, il cammino della fisica nei primi anni del XX secolo, quando è passata da attività da bancone, con semplici esperimenti realizzabili in piccoli laboratori, agli esperimenti con gli acceleratori di particelle.
Il libro è semplice e coinvolgente e chiunque può affrontarne la lettura, pur non avendo conoscenze specifiche.