Daniela Molinari

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Giovedì, 01 Agosto 2013 06:56

La ragazza e il professore

TRAMA:
Pomeriggio inoltrato: una ragazza, forse una studentessa universitaria, si trova in una sala d’attesa senza finestre. Dopo qualche minuto, viene accolta da Albert Einstein. Il dialogo è inizialmente incerto: si parla della fisica, del fatto che la materia, oggetto di studio della fisica, è complessa e le formule costituiscono una pericolosa semplificazione.
Appeso nella stanza si trova un quadro di Newton: secondo Einstein, Newton era convinto di essere riuscito a spiegare il mondo, quasi in ogni dettaglio. Ma in realtà vedeva solo un pezzetto di mondo, da un’angolatura particolare e alcune dimensioni gli sfuggivano. Il mondo non è come lo vediamo e le parole possono essere poco adeguate per descriverlo. 
Cosa è successo nel 1905? Einstein ha pubblicato tre o quattro brevi articoli su una rivista di fisica, rimettendo in discussione la vecchia struttura newtoniana del mondo. Nessuno è in grado di capire l’importanza di queste scoperte, nemmeno Einstein: dichiara che il tempo è relativo ed è soggetto agli eventi esattamente come succede alla velocità e alla materia, mentre lo spazio-tempo è un nuovo assoluto da cui partire, per coordinare gli eventi.
Improvvisamente, Newton fa irruzione nello studio: discutono animatamente, ma si capisce che non è la prima volta che lo fanno. Einstein cerca di convincerlo che l’azione simultanea a distanza è impossibile e che la teoria della relatività non è che lo sviluppo della gravitazione. Gli parla delle nuove forze, dei nuovi oggetti in gioco, della teoria del tutto: l’universo è infinitamente più vasto e complesso di quello conosciuto da Newton! Con una pila di libri e riviste, lo rimanda in sala d’attesa a studiare e riprende il discorso con la ragazza, rivelandole il mistero della sua presenza. Nelle equazioni di Einstein è celato ancora un mistero, che i fisici odierni stanno cercando di svelare. Einstein sarà in vita fino a quando questi misteri non saranno completamente svelati.
La sua più importante equazione, l’unica realmente conosciuta a livello mondiale, persino da chi non ne conosce il significato, è E = mc2: con questa equazione, Einstein eguaglia materia e energia. È per questo il padre dell’arma nucleare? Proprio lui che per tutta la vita ha militato per la pace?
Si compie a questo punto un tuffo nel passato: si vedono le persecuzioni perpetrate ai suoi danni in Germania, negli anni Trenta, quando i suoi libri vengono bruciati. All’indomani del suo arrivo in America, esplode la sua gloria ed egli cerca di sfruttarla per quelle cause che ritiene giuste: scrive a Freud, chiedendogli la motivazione della guerra, che lo stesso definisce una pulsione di odio e distruzione, insita nel genere umano. I loro carteggi vengono pubblicati nel 1933: secondo Freud è chiaro che “Tutto ciò che contribuisce allo sviluppo della cultura è un atto contro la guerra”, ma, nonostante tutto, le loro voci restano inascoltate. Einstein mostra alla ragazza una sala riunioni in Germania nel 1931-32, quando non riesce nemmeno a parlare, perché viene accolto da grida e fischi: per questo motivo abbandona la Germania. E nel 1939 è a Long Island, dove, in una casetta in riva al mare, riceve Leo Szilard e Eugene Wigner, fisici che godono della sua completa fiducia. I due vogliono convincerlo a scrivere a Roosevelt, per spingere l’America a ottenere la fissione dell’atomo. Hahn e Strassmann, chimici tedeschi, hanno ottenuto il bario bombardando l’uranio con i neutroni: non c’è dubbio, giungeranno presto alla fissione e i tedeschi si stanno preparando a sfruttare questa scoperta, vietando le esportazioni di uranio. La lettera viene probabilmente scritta da Szilard e firmata da Einstein il 2 Agosto del 1939.
Einstein richiama Newton e gli mostra l’esplosione di Hiroshima: “Guarda che cosa hanno fatto con i nostri studi…”. Newton si dissolve lentamente: il suo tempo è finito a Hiroshima e la fissione dell’atomo lo porta via con sé. 
Il discorso si conclude con una discussione sui nuovi obiettivi della fisica moderna: Einstein continua a credere nell’esistenza di una legge rigorosa che renda ragione di tutte le debolezze del sistema, anche se ci sono momenti in cui sembra ripiegarsi malinconicamente su se stesso, ammettendo che alcune teorie hanno le sembianze di un sogno.
 
COMMENTO:
Il libro è semplice e interessante. Fornisce notevoli spunti e inquadra la figura di Einstein nel suo contesto storico, a diretto confronto con gli eventi politici e con gli altri grandi del suo tempo. È sicuramente una lettura interessante soprattutto per quegli studenti che si apprestano a confrontarsi con l’esame di stato.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:25

Perché la matematica

TRAMA:
Il libro comincia con un paradosso: “La matematica dimora nel cuore dell’uomo, ma in questa casa è straniera”. La seconda parte dell’enunciato è una verità quasi evidente, basta notare che di fronte alla domanda: “Scusi, per lei cosa è la matematica?” si ottengono, per la maggior parte, reazioni di smarrimento e imbarazzo. Per dimostrare la prima parte dell’enunciato, invece, bisogna innanzi tutto definire la matematica. La scienza in generale è l’insieme di tutte le teorie, caratterizzate da coerenza, uniformità degli argomenti trattati, verità delle proposizioni elencate. La matematica è l’insieme di tutte le teorie per le quali i procedimenti di verificazione non richiedono l’esperienza, anche se bisogna sottolineare che l’esperienza non è estranea ai processi di formazione. La matematica non è solo una tecnica, ma una forma completa e autonoma di conoscenza.
Il metodo caratteristico di cui si avvale la matematica per raggiungere la sua verità è il metodo assiomatico-deduttivo: infatti, dimostrare un teorema significa far vedere, con una serie di ragionamenti, che esso non è che una conseguenza degli assiomi. Fino al XIX secolo, gli assiomi erano considerati come sentenze inoppugnabili a causa della loro grande evidenza, ma i moderni sistemi di assiomi sono slegati dalla realtà e gli oggetti matematici sono involucri contenenti certe cariche di comportamenti logici. Tutto ciò fece affermare a Russell che la matematica è quella scienza nella quale non si sa di che cosa si parla e non si sa se ciò che si dice è vero.
La matematica ha molteplici applicazioni: è il linguaggio naturale della fisica, ma serve anche per lo studio dei fenomeni sociali. Essa si serve della logica, un codice che garantisce l’oggettività del linguaggio. Aristotele sembra essere stato il primo pensatore ad occuparsi dello studio sistematico delle leggi dell’inferenza logica, della quale la matematica era considerata un capitolo. Ma l’origine di tutti i guai sono stati gli Elementi di Euclide. In quest’opera compaiono cinque assiomi: i primi quattro evidenti e semplicissimi, il quinto no, ha tutta l’aria di essere un teorema. Nel XVIII secolo, Saccheri sviluppa una geometria con cinque assiomi: i primi quattro corrispondono a quelli di Euclide, il quinto è la negazione del quinto degli Elementi. Saccheri era convinto che sarebbe giunto ad una contraddizione, ma i risultati cui perviene sono mostruosi unicamente nella misura in cui contraddicono l’intuizione. Se si ammette che gli assiomi si riferiscono ad una “realtà”, Saccheri ha raggiunto il suo scopo, ma più avanti Bolyai e Lobatchewsky arrivarono, per questa strada, alla scoperta delle geometrie non euclidee. Si arrivò a dimostrare che le geometrie non euclidee e la geometria euclidea sono così legate, che una eventuale contraddizione delle une avrebbe potuto dare luogo ad una contraddizione anche nell’altra.
Hilbert e Study successivamente dimostrarono che è possibile trasformare ogni teorema di geometria euclidea in un corrispondente teorema di aritmetica. Perciò i matematici decisero di salvare l’aritmetica dalla contraddizione, radicandola nella logica. Verso il 1870, Frege pose mano a questa titanica impresa, ma Russell scoprì nel suo lavoro almeno una proposizione legittima eppure autocontraddittoria e rase al suolo la dottrina che pretendeva di eliminare a priori non solo le proprie contraddizioni, ma anche quelle delle dottrine vassalle, come l’aritmetica.
Fu ancora Russell a indicare la strada giusta per il superamento della crisi dei fondamenti, istituendo una teoria che stabilisce un certo insieme di proibizioni nella composizione delle frasi. La via giusta per uscire dalla crisi era quella di adoperare la matematica per giustificare la logica e non viceversa. Le risposte vennero trovate in pochi decenni, attraverso i lavori di molti ricercatori: si isolarono tutte le regole grammaticali del linguaggio matematico e vennero scritti simbolicamente gli assiomi della logica, per il cui uso vennero fissate poche regole di inferenza. L’incompletezza e l’indecidibilità furono uno dei passi nella soluzione della crisi e in questo senso, i teoremi di Gödel e di Church gettano una luce completamente nuova sui “problemi difficili della matematica”. 
La crisi dei fondamenti è la dimostrazione che i momenti più importanti dell’evoluzione della matematica nei secoli sono quelli nei quali la travolgente potenza della verità costringe gli uomini matematici a cambiare rotta e ogni rinuncia al mondo vecchio non è mai stata altro che la conquista di un mondo nuovo.
 
COMMENTO:
Libro semplice e curioso. Può andar bene anche per “palati” poco abituati a discorsi filosofici e logici.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:24

Le menzogne di Ulisse

TRAMA:
La logica è lo studio del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Nella storia della filosofia, Parmenide, per primo, ebbe alcune buone intuizioni al riguardo ed esse vennero poi sviluppate da Platone, ma soprattutto da Aristotele, con la Logica “classica”, che non viene messa in discussione fino al Novecento, avendo già raggiunto la completa maturità matematica. Per Aristotele, la logica è solo uno strumento per lo studio delle scienze, mentre per Crisippo di Soli, terzo rettore della “Prima Stoà”, la logica è una scienza autonoma ed emerge come una conquista intellettuale di prim’ordine. Con gli stoici, vengono isolate alcune regole di ragionamento, come la negazione, la congiunzione, la disgiunzione e l’implicazione. Potremmo dire che Aristotele e Crisippo furono i massimi logici dell’antichità a pari merito; per lungo tempo furono considerati in antitesi e solo successivamente ci si rese conto che le logiche proposte dai due erano in realtà due approcci complementari.
Con la Scolastica, la logica viene “usata” per dimostrare l’esistenza di Dio, ma fa un passo avanti verso il linguaggio artificiale che la caratterizza ai nostri giorni, visto che Pietro Ispano stabilisce una nomenclatura, grazie alla quale ogni sillogismo viene identificato con tre vocali.
Lullo tenta di tradurre il linguaggio naturale in quello numerico e ha il pregio di aver realizzato un meccanismo a ruote concentriche per automatizzare il pensiero, praticamente un precursore dei moderni calcolatori. Leibniz si ispira proprio a Lullo e, dopo aver abbozzato la matematica binaria, dichiara la sua intenzione di voler rendere automatico il processo mentale: “Quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino e si dicano reciprocamente (chiamando, se vogliono, a testimone un amico): Calculemus, Calcoliamo”.
Gorge Boole fu il primo a carpire il segreto dell’aritmetica binaria e fece uscire la logica dal campo della filosofia, per farla entrare nel campo delle scienze. Nel 1847 pubblica “L’analisi matematica della logica”, considerata l’atto di nascita, il manifesto della logica matematica. Grazie a Boole, le complesse problematiche della logica proposizionale vengono imbarazzantemente ridotte a un semplice calcolo scientifico: la negazione sostituita dalla sottrazione, la congiunzione dalla moltiplicazione e la disgiunzione dall’addizione. In altre parole dimostra che è possibile realizzare il sogno di Leibniz, anche se la sua logica ha il limite di essere un’efficiente riformulazione algebrica della logica di Aristotele e Crisippo. Praticamente, non aggiunge nulla di nuovo.
Frege tenta di ridurre la matematica alla logica, con un programma ambizioso da sviluppare in più tappe, ma la lettera di Bertrand Russell, nella quale lo stesso gli parla del paradosso che ha trovato nel sistema, interrompe il suo lavoro. Wittgenstein ritiene, invece, di aver realizzato la “soluzione finale” del problema della logica, ma si renderà conto dopo non molto tempo di aver sbagliato. Hilbert scrive i “Fondamenti della Geometria”, ma la scoperta di Gauss, Lobacevskij e Bolyai della geometria iperbolica ingenera la sfiducia nella geometria euclidea e conferma David Hilbert nella sua idea di ridurre la geometria all’analisi. 
Lo scossone all’intero sistema viene dato da Kurt Gödel, il cui lavoro viene considerato il contributo più importante che la logica matematica abbia mai ricevuto. Con il Teorema di incompletezza, distrugge il programma di Hilbert, presentato al Congresso Internazionale di Matematica di Parigi nel 1900, perché dimostra che la matematica non è riducibile alla logica. Dopo di lui, Alan Turing, dopo aver contribuito alla vittoria della Seconda Guerra Mondiale con la decodificazione dei messaggi di Enigma e dopo aver dimostrato che sistemi matematici e programmi informatici sono in realtà due aspetti di una stessa realtà algoritmica, dimostra, contemporaneamente con Church, l’indecidibilità della logica.
 
COMMENTO:
Un libro non facile, ma molto coinvolgente. Richiede una grande concentrazione, ma alla fine lascia un segno profondo. La natura della logica è presentata fin nella sua profondità, non solo attraverso il suo sviluppo, ma anche attraverso le vite dei personaggi che l’hanno fatta diventare ciò che conosciamo.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:19

Breve storia della scienza

TRAMA:
La trama del libro, che verrà ricostruita qui di seguito solo per sommi capi, è praticamente la storia della scienza, in tutti i suoi aspetti, a partire dalla sua nascita in Grecia, fino alle scoperte più recenti, come la teoria della relatività e la genetica.
 
La curiosità dell’uomo lo ha spinto, fin dall’inizio della sua storia, a cercare di spiegare i fenomeni della natura; il primo a farlo, senza ricorrere a divinità esterne, fu Talete, ma si dice spesso che lo studio della natura sia cominciato davvero solo con Aristotele. Al contrario dei Greci, i Romani erano molto pratici, ma meno dotati per la ricerca e il pensiero profondo, per questo, con la chiusura dell’Accademia di Atene nel 529, la ricerca filosofica e scientifica ebbe una pausa in tutta Europa e venne portata avanti dagli alchimisti orientali. La Cina divenne uno dei paesi più ricchi e potenti del mondo, ma nel 1300 la cultura europea ritornò protagonista. Si diffusero le idee di Ruggero Bacone, che sosteneva che gli uomini potevano acquisire nuove conoscenze eseguendo esperimenti.
Durante il Seicento, in gran parte d’Europa gli scienziati cominciarono ad osservare la natura come mai prima di allora era stato fatto: la sperimentazione era diventata usuale e finalmente era consentito porsi ogni tipo di domanda. Quella che si verificò tra gli scienziati viene talvolta definita la rivoluzione scientifica, il cui leader indiscusso fu Newton: con i Principia mise fine a quell’epoca in cui si pensava di poter trovare una spiegazione semplice alla maggior parte dei fenomeni naturali. 
In seguito ci fu la rivoluzione industriale, le cui ragioni principali sono da ricercarsi nelle grandi scoperte e invenzioni del XVIII e XIX secolo. Responsabili delle scoperte furono Franklin, Coulomb, Volta, Oersted, Faraday, Morse, Meucci, Marconi, ma il più abile nello sfruttamento dell’elettricità fu Thomas Alva Edison, tuttora considerato il più grande di tutti gli inventori. Maxwell, studiando gli esperimenti di Faraday e applicando il calcolo differenziale di Newton, spiegò la connessione tra elettricità e magnetismo con quattro sole formule, le più difficili della scienza.
Verso la fine dell’Ottocento fra gli scienziati dominava un grande ottimismo: erano convinti che la scienza avesse ormai capito la maggior parte di ciò che c’era da sapere e che fosse possibile calcolare tutto ciò che accadeva fino al minimo dettaglio. Per i biologi, però, era difficile racchiudere in semplici leggi quello che accadeva in natura. Lo svedese Carlo Linneo diede una svolta allo studio della natura e Darwin fece molte scoperte sull’evoluzione delle specie. 
Alla fine del Settecento, medici e scienziati conoscevano piuttosto bene il corpo umano, ma sapevano poco delle malattie. Nel 1858, Pasteur ideò la “teoria dei batteri”, ma solo nel 1928, con Alexander Fleming e la penicillina, si trovò il rimedio contro le infezioni. 
Nel corso di tutto il Settecento e di gran parte dell’Ottocento, si svolse un’intensa caccia agli elementi chimici e John Dalton ideò la teoria atomica, anche se non esistevano strumenti che consentissero di vedere gli atomi. Nel 1909 Rutherford ricostruì la struttura dell’atomo, perfezionata nel 1913 da Niels Bohr. Studiando in modo sempre più approfondito l’energia che derivava dai cambi di orbitale degli elettroni, i fisici scoprirono i quanti e si aprì la strada alla fisica quantistica, che rivelò molte scoperte singolari, fra le quali l’invenzione della bomba atomica.
Albert Einstein, nel 1905, rivoluzionò la fisica con la teoria della relatività, che si diffuse rapidamente tra i fisici di tutto il mondo, visto che le sue formule erano estremamente convincenti.
Alla fine degli anni venti Edwin Hubble scoprì che le galassie sembrano allontanarsi da noi, ma solo nel 1931 con Lemaître si cominciò a parlare di Big Bang, teoria confermata dalla scoperta della radiazione di fondo nel 1964, da parte di Penzias e Wilson.
Nell’Ottocento, Mendel cominciò a studiare la genetica, ma solo a più di vent’anni dalla sua morte vennero riscoperte le leggi che lui stesso aveva enunciato. Lo scienziato americano Morgan imparò molte cose sul funzionamento dei cromosomi come portatori di eredità, ma solo Crick e Watson riuscirono a “vedere” la molecola del DNA contenuta in essi.
 
COMMENTO:
Interessante presentazione della storia della scienza (biologia, astrofisica, fisica… tutti gli aspetti) alla portata anche dei non addetti ai lavori. Per certi aspetti, soprattutto nelle prime pagine, sembra addirittura che l'autore tratti il lettore come un bambino. In realtà lo accompagna per mano lungo il passare dei secoli e le sempre nuove scoperte, nella ricerca della verità.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:17

Zero

TRAMA:
I matematici non parlano di numeri, ma di nessi e i numeri acquistano così sempre maggiore evanescenza. Con lo zero la questione si ingarbuglia ancora di più, visto che i nomi designano qualcosa, ma zero designa niente, esprime la quantità di quel che non c’è. Per questo l’itinerario temporale e concettuale dello zero è pieno di complicazioni e traversie. 
Contare, in fondo, significa associare specifici sostantivi numerici e simboli a raccolte di oggetti di vario tipo e ben presto in tutte le culture si riunirono gli oggetti che si desiderava contare in gruppi della medesima grandezza, per contare i gruppi invece degli oggetti. Con i numeri romani la rappresentazione restava goffa, ma già ai tempi dei Babilonesi possiamo trovare le tracce ancora rudimentali, con un semplice doppio cuneo, dello zero attuale. Non c’è traccia di zero nella Grecia omerica e classica e neppure in epoca alessandrina. Non c’era la notazione posizionale e le difficoltà di calcolo erano grandi, tanto più che i primi Greci non avevano portato a termine il processo di astrazione dei numeri da ciò che servivano a contare. È probabile che solo con Alessandro Magno i Greci abbiano scoperto la funzione decisiva dello zero nei calcoli, quando nel 331 a.C. invasero ciò che restava dell’impero babilonese. Infatti, nei loro papiri astronomici del III secolo a.C. troviamo il simbolo «0» a indicare lo zero.
Esso però non era ancora un numero: era usato come noi usiamo la punteggiatura. D’altra parte, il calcolo non godeva di molto prestigio sulle sponde dell’Egeo. Era chiamato «logistica» e lasciato ai mercanti: la passione dei Greci per la matematica era rivolta in larga misura alla geometria e i mercanti, lasciati a se stessi, si consolarono con l’abaco. Kaplan è convinto che proprio nell’abaco ci sia l’origine dello zero come lo conosciamo oggi: è verosimile che i sassolini spesso usati fossero tondeggianti; perciò sarebbe stato naturale rappresentarli nella scrittura e nei disegni con cerchietti pieni, che diventano cerchietti vuoti nel momento in cui sulla colonna non c’era nemmeno un contrassegno. 
È innegabile l’influenza che la cultura greca ebbe su quella indiana: la presenza dei semi di papavero nella sequenza di Archimede e nel racconto sul Buddha non può essere fortuita. Aryabhata, Varahamihira, Brahmagupta… tutti avevano un loro modo di indicare lo zero, con sinonimi che lo collocano più nella ragione discorsiva che in quella matematica. 
Nel 950, nella Spagna moresca, troviamo figure arabe particolari: sono i numeri da 1 a 9, senza lo zero. Questi numeri sono circondati da sciami di puntini che indicano il loro posto-valore: se sul numerale non c’è nessun puntino, è un’unità; se ce n’è uno, si tratta di una decina; se ce ne sono due, di un centinaio, e così via. Sono punti pieni e, benché piccoli, funzionano quasi come zeri nella numerazione posizionale.
Dobbiamo ancora vedere lo zero trattato come un numero: esso era una «condizione transitoria di una parte di tavoletta per calcoli». Il fatto è che qualunque cosa può essere un numero, purché si dimostri capace di socializzare con ciò che è già considerato tale: lo zero doveva poter essere sommato, sottratto e impiegato in moltiplicazioni e divisioni. 
Indipendentemente dalla cultura greca o da quella indiana, anche i Maya avevano il loro simbolo di zero: un uomo tatuato adorno di collana e con la testa piegata all’indietro. Mentre la cultura Maya agonizzava, i mercanti arabi trasportavano merci esotiche, racconti e tecniche in ogni dove. Furono forse mercanti arabi sulla via delle spezie e dell’avorio a portare lo zero in Cina. L’origine indiana dello zero cinese è rivelata non solo dalle sue forme, ma anche dall’ideogramma corrispondente, che alludeva alle ultime, rare gocce di acqua dopo un temporale. 
Di certo lo zero giunse in Occidente non più tardi del 970, ma la superstizione spinse i timorati di Dio a evitarlo, attirandogli le simpatie di coloro che sentivano il fascino dell’occulto. I numerali arabi facevano fatica ad imporsi, come dimostra il fatto che nel 1299 a Firenze il Consiglio cittadino emanò un’ordinanza che dichiarava illegale l’uso dei numeri nei libri contabili: le somme andavano indicate in parole, perché lo zero poteva essere facilmente mutato in 6 o 9. 
Fibonacci, nel 1202, pubblicò il Liber Abaci, nel quale parlava dei numerali arabi, da lui giudicati il miglior strumento di calcolo in cui si fosse imbattuto. Non si limitò a descriverne il sistema, ma da vero matematico si divertì a esplorarne le possibilità. Ma parlava di nove cifre indiane e del segno zero. 
I numerali arabi avanzavano in modo discontinuo, aiutati anche dall’invenzione della contabilità a partita doppia. Al tempo di Luca Pacioli, i numerali romani erano usati soprattutto per le date e per conferire solennità ai documenti, ma il modo in cui le somme erano archiviate era diverso da quello in cui erano ottenute.
Senza dare nell’occhio lo zero entrò nel Rinascimento insieme ai numerali arabi e si rese indispensabile ai nostri calcoli. John Napier, barone di Merchiston presso Edimburgo, ponendo le equazioni simili uguali a zero, ideò un metodo di soluzione valido per tutte. Ci voleva un tocco di genialità per pensare di utilizzare lo zero in questo modo. 
Nel XVII secolo, l’atteggiamento verso le equazioni stesse stava cambiando: si cominciavano a mettere a fuoco problemi di moto. Fra coloro che ragionavano per infinitesimi, due uomini giunsero allo stesso risultato quasi contemporaneamente: Isaac Newton e Gottfried Wilhelm Leibniz. Fu però soltanto alla fine del XIX secolo che in Francia e in Germania fu elaborata un’interpretazione del problema che sembrava finalmente soddisfacente. 
Ciò che nacque col calcolo infinitesimale non fu solo un modo di afferrare e controllare lo spettacolo del cambiamento, ma una nuova percezione della sede del significato. Il problema 0/0 fu finalmente risolto, anche se solo nel contesto delle pendenze: negli altri casi la divisione per zero rimane impossibile.
Il più grande trionfo dello zero nella sua opera di espansione della nostra conoscenza si ha grazie al calcolo infinitesimale: lo zero possiede la chiave per farci compiere la maggior parte delle imprese e con il minimo sforzo. Perché lo zero? Perché il valore della variabile nel punto in cui la funzione derivata si azzera è il numero che massimizza o minimizza il processo. 
Dove troviamo lo zero in natura? Non lo possiamo trovare nell’universo, colmo di radiazioni invisibili, non lo troviamo nelle campane di vetro, nonostante il lavoro di generazioni di ricercatori ci abbia portato sempre più vicini alla meta. Se siamo alla ricerca di uno zero all’interno della realtà fisica, non lo troveremo nemmeno nel tempo e neppure nel centro inerte delle cose. Lo zero può trovarsi nelle leggi, nelle relazioni fra le cose: ma esse non sono cose, non sono entità che esistono nella realtà e quindi nemmeno gli zeri che esse implicano sono realtà. 
Lo zero non è né positivo né negativo, anche se ci appare negativo quando pensiamo al suo significato metaforico: quanti zero scopriamo di aver incontrato nella nostra vita e persino di aver deriso! Oppure ci appare positivo se lo pensiamo come il vivere con umiltà: ridurre se stessi a zero, umiliando il proprio orgoglio. 
Dopo aver percorso la storia dello zero, le sue incarnazioni matematiche, fisiche e psicologiche, Kaplan conclude con il sistema binario, scoperto da Napier nel 1616, grazie al quale funzionano le nostre calcolatrici: tutti i numeri derivano da combinazioni di 0 e 1. Ma si può fare di più: von Neumann riconosce lo zero nell’insieme vuoto e da esso ricava tutti gli altri numeri. Esattamente come Pierce, filosofo americano, che nel 1880 fa discendere l’intera logica dalla negazione della verità. 
Davvero «Il nulla avrà origine dal nulla» come afferma il Lear shakespeariano?
 
COMMENTO:
A tratti complesso, ma nell’insieme scorrevole, il libro offre un’ottima panoramica della storia, non solo matematica, dello zero. Non è forse adatto a studenti delle superiori, visti alcuni passaggi un po’ complessi, anche se dal punto di vista matematico non presenta calcoli complessi o formule incomprensibili.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:16

Il numero

TRAMA:
CAPITOLO PRIMO – Genesi dei sistemi di numerazione
Dal contare come stabilire una corrispondenza biunivoca al contare come raggruppare: interessante la storia della nascita del numero, attraverso i sistemi di numerazione arcaici degli Egiziani, dei Babilonesi, dei Greci e dei Maya e quelli più moderni degli Indiani e degli Arabi.
 
CAPITOLO SECONDO – Sistemi posizionali di numerazione
Capitolo un po’ più complesso, dedicato allo studio delle rappresentazioni posizionali dei numeri attraverso le rappresentazioni algebriche dei codici. (interessante e curiosa la moltiplicazione araba, anche se non è spiegato il meccanismo).
 
CAPITOLO TERZO – Divisibilità e sistemi di numerazione
A partire dal teorema fondamentale dell’aritmetica, il capitolo si sviluppa con la dimostrazione della periodicità della rappresentazione dei numeri razionali in basi periodiche. Complesso dal punto di vista della comprensione: alcuni concetti sono espressi in modo eccessivamente e inutilmente complicato. In questo capitolo si fa riferimento anche al teorema di Eulero, ai numeri ciclici e ai primi di Mersenne. (curiosa la prova di divisibilità di Pascal)
 
CAPITOLO QUARTO – Numeri reali
Si comincia con il dominio di integrità dei numeri razionali, si passa attraverso il metodo assiomatico e la commensurabilità, con ampio riferimento ai pitagorici e al teorema di Pitagora. Si arriva al teorema di Fermat e alla dimostrazione dell’incommensurabilità di , oltre alla dimostrazione dell’impossibilità fisica di rappresentarla. Il capitolo si conclude con la presentazione dei tre problemi irrisolvibili dell’antichità, costruibili solamente con riga e compasso.
 
CAPITOLO QUINTO – Frazioni continue
Innanzi tutto viene presentato l’algoritmo euclideo per il calcolo del MCD interessante perché iterativo, carattere tipico proprio delle frazioni continue.
 
CAPITOLO SESTO – Fratture
A partire dal Piano di Argand, o semplicemente piano complesso, il capitolo si snoda attraverso la rappresentazione geometrica dei numeri e dei nodi primi (si definiscono anche i numeri primi gaussiani); le fratture sono un modo per rappresentare i numeri irrazionali, che nessuna retta con pendenza razionale può incontrare: ovvero è un ipotetico raggio luminoso infinitamente sottile che si propaga all’infinito senza incontrare un nodo. Nello sviluppo del capitolo viene rivisitato anche il calcolo del MCD.
 
CAPITOLO SETTIMO – Infinito 
Sicuramente il capitolo più interessante, anche se costituisce solo un assaggio dell’argomento, essendo poco sviluppato. “La strada per l’infinito è disseminata di paradossi, e occorre prestare grande attenzione quando si estrapola un ragionamento da qui a lì. Ciò può sembrare una naturale estensione di leggi e regole inerenti all’ambito della nostra più prossima sfera d’azione, in altre parole, i primi (e pochi!) numeri interi, talvolta può portare a irrisolvibili contraddizioni”. È il caso delle serie convergenti e dei paradossi sulle serie infinite, dell’Hotel Hilbert e dei paradossi di Zenone, dell’Horror infiniti dei Greci, al quale il metodo di esaustione di Eudosso si oppone. Solo Cantor parla di infinito attuale, contro l’infinito potenziale di Aristotele, solo Cantor cerca di numerare i vari tipi di infinito, di confrontarli l’uno con l’altro.
 
COMMENTO:
Libro a tratti molto difficile, inutilmente complicato laddove i calcoli avrebbero potuto essere presentati più semplicemente. Interessante e scorrevole il primo capitolo, sulla genesi dei sistemi di numerazione, facile il quarto, sui numeri reali, molto interessante il quinto, sulle frazioni continue e riduttivo il settimo, sull’infinito.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:15

La quarta dimensione

TRAMA:
Il racconto fantastico Flatlandia, pubblicato nel 1884, narra la storia di un Quadrato che intraprende un viaggio nella terza dimensione. Rucker prende spunto da questo per parlare della Quarta Dimensione, attraverso un’analogia: la terza dimensione sta alla seconda, come la quarta sta alla terza. Il libro ha come fil rouge le Nuove avventure del Quadrato: in queste Rucker immagina che il Quadrato di Flatlandia guidi il lettore alla scoperta della quarta dimensione. 
Innanzi tutto Rucker riconosce che ogni oggetto di nD divide lo spazio (n + 1)D in 2 regioni: il filosofo dell’iperspazio Hinton propone i termini anà e katà per le regioni in cui il nostro spazio 3D divide quello 4D. «Tanto per avere un riferimento, possiamo immaginare che rispetto al nostro spazio il paradiso sia anà e l’inferno katà.»
La quarta dimensione è un’idea molto giovane: risale a poco prima della metà dell’Ottocento ed il primo filosofo a parlarne seriamente fu Kant. Nel tardo Ottocento era molto diffuso lo spiritismo e per trovare una spiegazione alla capacità di manifestarsi degli spiriti, venne ipotizzato che si trovassero nella quarta dimensione. Zöllner, professore di astronomia all’Università di Lipsia, diede vera diffusione a quest’idea e si illuse anche di averla dimostrata attraverso degli esperimenti. «L’effetto principale del lavoro di Zöllner fu che la quarta dimensione cominciò ad avere una reputazione sospetta e antiscientifica.». 
Il primo a toccare in qualche modo la Quarta dimensione fu Hinton, che riuscì a «prendere un oggetto 3D e vederne le parti semplicemente in termini di “che cosa è vicino a che cos’altro”, liberandosi quindi dai nostri tipici concetti spaziali di davanti/dietro e sopra/sotto.»
Rucker rivisita i concetti di spazio e tempo: «Siamo avvezzi a pensare che l’universo sia fatto di grumi di materia fluttuanti nello spazio vuoto: la materia è qualche cosa e lo spazio è il nulla. Ma è davvero una visione corretta?» A partire dall’esperimento di Michelson e Morley del 1887, Rucker si addentra nella teoria della relatività di Einstein. Dopo aver specificato che non si può determinare la forma dello spazio, in quanto ogni nostra ipotesi parte dall’idea che la curvatura dello spazio sia una costante, mentre «lo spazio potrebbe avere una forma ben più strana di quanto crediamo», Rucker tratta poi delle porte magiche su altri mondi, oggetti che ricorrono in tutta la letteratura fantastica. 
Torniamo al mondo di Flatlandia: immaginare un universo parallelo a quello del Quadrato è semplice, basta immaginare infiniti piani paralleli. Non è difficile nemmeno immaginare una porta magica che colleghi fra loro i due universi: si può pensare ad esempio ad una specie di scivolo che colleghi fra loro i due piani. Allo stesso modo, per analogia, dovremmo riuscire ad immaginare una porta che colleghi fra loro due diversi spazi tridimensionali, per forza di cose una porta che esista nella quarta dimensione. «Che aspetto avrebbe un siffatto tunnel iperspaziale? Il suo ingresso apparirebbe come una sfera contenente un altro universo completo, incredibilmente compresso e distorto. Se vi buttaste a capofitto in questa sfera, avreste proprio la sensazione di attraversarla. Ma poi, guardandovi intorno, vi rendereste conto di trovarvi nell’altro universo e voltandovi a guardare verso il tunnel iperspaziale vedreste una sfera che sembrerebbe contenere tutto il nostro universo originale, incredibilmente compresso e distorto.» 
E per quanto riguarda il tempo? Innanzi tutto, a partire dalla teoria della relatività, si è cominciato a parlare di spazio-tempo costituito da eventi: «Un “evento” è proprio ciò che la parola esprime: un dato luogo in un dato momento.» Il tempo, in quest’ottica, potrebbe essere una delle dimensioni superiori. 
Viaggiare nel tempo darebbe luogo a paradossi assurdi, eppure è da epoche remote che gli uomini sognano di viaggiare liberamente attraverso di esso. Infatti, i viaggi nel tempo e i viaggi FTL (faster than light) «promettono l’affrancamento da tre pastoie tipiche della condizione umana. Il viaggio nel tempo ci libera dal cieco e malefico dispotismo del tempo e dalla sterile nostalgia. Il viaggio FTL ci affranca dall’ostinata tirannia della distanza fisica, dalle fastidiose necessità del viaggio effettivo. I viaggi nei mondi alternativi ci liberano dal dover occupare una data posizione nella società e dalla necessità di accettare il mondo così com’è.» In altre parole, l’esistenza di questi viaggi ci permetterebbe di cambiare radicalmente la nostra vita. 
Rucker si esprime poi contro la telepatia: molti eventi sono collegati da causa ed effetto, altri invece no, sembrano coincidenze. C.G. Jung, psicologo, introduce il termine di sincronicità proprio per descrivere questi eventi: con questo termine, infatti, designa una “connessione acausale”. 
Nell’ultimo capitolo, Rucker cerca di rispondere alla domanda “Che cos’è la realtà?”. «Se facciamo uno sforzo sincero per descrivere il mondo come veramente lo sperimentiamo, allora esso diventa infinitamente più complicato di una semplice immagine 3D. Si ha la sensazione che, quanto più ci immergiamo nella natura della realtà, tante più cose scopriamo. Lungi dall’essere limitato, il mondo è, al contrario, di una ricchezza inesauribile.»
 
COMMENTO:
Scorrevole per chi abbia già conoscenze nel campo. In ogni caso, come tutti i libri al riguardo, può sembrare ai limiti del fantascientifico (non per nulla Rucker ha scritto anche libri di fantascienza). Il libro offre un’interessante carrellata sulla storia della quarta dimensione, presentando personaggi importanti ed influenti. 
Il tutto parte dal racconto fantastico di Flatlandia, perciò è necessario aver letto prima tale racconto, altrimenti si farebbe fatica a capirlo.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:14

L'uomo che vide l'infinito

TRAMA:
Ramanujan fu un eccentrico personaggio: nato in India nel 1887, si innamorò della matematica nel 1903 e, irretito dalla matematica pura, perse interesse per tutto il resto: gli venne così tolta la borsa di studio che aveva ottenuto.
La sua famiglia era ai limiti della miseria e di tanto in tanto Ramanujan pativa anche la fame. Cercò di arrangiarsi con qualche ripetizione, ma non era abile come insegnante. Cominciò a riportare i suoi appunti in alcuni quaderni che dimostrano il suo sviluppo fuori dalle convenzioni. I genitori lo sopportarono a lungo, ma alla fine si irritarono e, forse verso la fine del 1908, gli organizzarono un matrimonio combinato. 
Il 1911 fu un anno positivo e promettente: ottenne un incarico che gli permetteva di mantenersi economicamente e di dedicare tutto il tempo che voleva alla matematica. Le serie furono il primo amore di Ramanujan e furono l’argomento del suo primo articolo pubblicato sul Journal. In questo, come in tutta la sua opera, Ramanujan trovò rapporti tra cose che sembravano senza rapporto. Le dimostrazioni che dava erano abbozzate o incomplete, ma con questa pubblicazione cominciò a farsi notare. 
Gli eventi cospirarono per dirgli che sarebbe stato ascoltato con maggiore cognizione di causa dai matematici europei. Scrisse a Baker e a Hobson, ma entrambi gli risposero negativamente. Il 16 gennaio 1913, Ramanujan scrisse a un altro matematico di Cambridge, G. H. Hardy. E Hardy gli prestò ascolto. Fu la stranezza dei teoremi di Ramanujan a colpire Hardy, non la loro genialità. La lettera di risposta di Hardy era prodiga di incoraggiamenti e la carriera di Ramanujan si avviò velocemente, tanto che ricevette una borsa di studio dal Presidency College di Madras che lo rendeva libero di dedicarsi alla matematica: non aveva nient’altro da fare se non presentare un resoconto dei progressi fatti ogni tre mesi.
Con Hardy continuò il contatto epistolare, ma verso la metà di marzo la situazione rasentò la lite vera e propria. E Hardy non rispose per mesi. Nonostante questo, egli fece di tutto per portare Ramanujan in Inghilterra. Ma Ramanujan proveniva da una famiglia indù profondamente ortodossa: recarsi in Europa o in America costituiva una forma di contaminazione. Quando alla fine partì, Ramanujan attribuì la sua decisione all’ispirazione divina.
Appena arrivato in Inghilterra, Ramanujan era produttivo, lavorava sodo, era felice. Come Hardy poté verificare, alcuni suoi risultati erano sbagliati. Alcuni non erano importanti come a Ramanujan piaceva credere. Alcuni erano autonome riscoperte di ciò che i matematici occidentali avevano già scoperto anni prima. Molti, però, forse un terzo, come calcolò Hardy, o forse due terzi, come avrebbero calcolato i matematici più di recente, erano novità da mozzare il fiato.
Era stata una vera fortuna per Ramanujan finire tra le mani di Hardy, che spinse Ramanujan in accelerazione senza mettere la museruola alla sua creatività o spegnere le fiamme del suo entusiasmo. Ramanujan non aveva doveri ufficiali nell’ambito del college. Poteva immergersi nella matematica senza preoccuparsi di esigenze finanziarie, né sue né della sua famiglia. 
Probabilmente dagli inizi del 1916, fu preda di una forte tensione nervosa. Non c’era solo la guerra: c’erano momenti in cui le piccole cose famigliari della vita dell’India meridionale gli mancavano terribilmente e, tra gli inglesi, non poteva non sentirsi un estraneo, perciò si chiuse in se stesso.
Per molti aspetti Hardy era il migliore e più fedele amico che Ramanujan avesse mai avuto. Era premuroso, leale e gentile con lui, ma non erano intimi. Ramanujan viveva i suoi problemi in solitudine e conduceva una vita irregolare, non dormiva e non mangiava, tanto che finì con il minare la sua salute. Sotto la guida di Hardy era andato bene, ma non era felice. Aveva impiegato tutte le sue energie nella matematica. Perciò si spezzò. Tanto che arrivò a tentare il suicidio.
Forse per paura di arrivare tardi, Hardy lavorò per ottenere la sua nomina alla Royal Society e subito dopo ottenne l’elezione al Trinity: i riconoscimenti che gli erano stati accordati avevano risollevato lo spirito di Ramanujan.
Tornò in India nell’aprile del 1919, ma tornava in uno stato di salute alquanto precario e si ritrovò nella fossa dei serpenti della sua famiglia, una bolgia che ribolliva di risentimento. 
Per tutto l’anno trascorso in India, Ramanujan lavorò a nuove scoperte matematiche: le sue capacità intellettive si fecero in proporzione più acute e brillanti. Quattro giorni prima di morire stava ancora scarabocchiando. 
Per quanto riguarda la comunità matematica, Ramanujan continua a vivere: “Scoprì così tanto, eppure lasciò agli altri ancora tanto di più da scoprire del suo giardino” disse Dyson. 
Hardy morì nel 1947. E ancora a distanza di vent’anni, Ramanujan era rimasto parte di lui, un faro splendente, luminoso nella sua memoria. “Un uomo la cui carriera sembra piena di paradossi e contraddizioni, che sfida quasi tutti i canoni secondo i quali siamo abituati a giudicarci l’un l’altro e sul quale tutti probabilmente concorderemmo in un unico giudizio: che fu per certi versi un grandissimo matematico.”
 
COMMENTO:
Un libro interessante. Semplice anche per chi conosce poca matematica, visto che si tratta di una biografia. L’autore è riuscito, attraverso metafore e semplici esempi, a rendere l’idea del peso delle scoperte di Ramanujan. Molto scorrevole.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:12

L'infinito

TRAMA:
Nella realtà del mondo fisico, nulla parla d’Infinito: lo spazio, il tempo, la massa, il numero delle cariche subnucleari… si tratta di cose immense, di numero elevatissimo, ma non infinito. Eppure l’intelletto umano concepisce l’Infinito e ne subisce il fascino. Il posto d’onore, nell’indagine sull’Infinito spetta a Georg Cantor: “è lui che ha saputo trovare le chiavi di quello che il grande matematico David Hilbert definì il paradiso di Cantor”. 
Quest’avventura intellettuale è raccontata da Zichichi con una favola: in un luogo ed un tempo imprecisati, un Imperatore escogitò un nuovo metodo per rifornire di denaro le sue casse, dichiarando vincitore di un concorso colui che avesse raggiunto il massimo numero di cose in suo possesso. Qualsiasi cosa fosse. Il valore era irrilevante. In questo modo l’Imperatore avrebbe misurato la ricchezza dei suoi sudditi. Alla chiusura del concorso, i contabili dell’Imperatore non riuscirono a stabilire se fossero di più i cubetti d’oro del conte Alberto, le pietre preziose del Marchese Augusto o i numeri del notaio don Luigi. La principessa Cristina risolse il problema confrontando i tre numeri tramite una corrispondenza biunivoca: la conclusione fu che il premio andasse distribuito ex-aequo ai tre. Con loro la Principessa fondò una nuova accademia, il cui principale argomento di discussione era l’Infinito ed il confronto fra i vari livelli di Infinito.
Proseguendo nel ragionamento, i tre giunsero al teorema di Gödel, ovvero alla dimostrazione che non ci può essere certezza… nemmeno in matematica! Si era sempre creduto che un teorema potesse essere o vero o falso: in realtà, ci sono teoremi dei quali non è possibile decidere se siano veri o falsi. 
Il cammino verso l’Infinito viene poi sintetizzato da Zichichi in venti tappe, dalla comparsa dell’uomo sulla terra fino alla scoperta della matematica non cantoriana, da parte di Paul Cohen nel 1963. Il cammino si snoda tra la nascita della logica nel VI secolo a.C., la nascita dei numeri irrazionali e la scoperta delle infinite frazioni di uno da parte di Zenone, fino ad arrivare alla possibilità dell’Infinito Potenziale di Aristotele e all’infinità dei numeri primi da parte di Euclide. Galilei scopre che una parte è equivalente al tutto, nel caso dell’Insieme Infinito dei numeri interi, ma se ne lascia spaventare. È Cantor a scoprire i diversi livelli di Infinito e a proporre l’Ipotesi del Continuo, secondo la quale non esistono livelli intermedi di infinito tra “aleph-zero” e “aleph-uno”. Tale Ipotesi primeggia nell’elenco dei problemi matematici da risolvere proposti da Hilbert nel 1900, ma con la scoperta di Gödel del crollo della certezza, essa sembra non avere soluzione.
 
COMMENTO:
Zichichi non delude… come sempre! La favola ripercorre le varie tappe del cammino umano, che hanno portato a parlare di Infinito in maniera sempre più competente. Il libro è ottimo soprattutto per i ragazzi di quinta superiore, visti i molti riferimenti anche alla filosofia. 
È semplice e simpatico, soprattutto nelle prime due parti. Un po’ più complessa la terza parte.
Mercoledì, 31 Luglio 2013 21:10

Il riso di Talete

TRAMA:
Proprio all’inizio del pensiero occidentale esplode una sonora risata di scherno nei confronti della scienza, quella della servetta tracia che vide Talete camminare a testa alta guardando le stelle e cadere in una buca. Talete è diventato l’archetipo dello scienziato ed “è ricordato in continuazione nella storia del pensiero occidentale con quell’aneddoto, che nelle sue varianti esprime i diversi atteggiamenti che si sono alternati o ripetuti nei confronti della ricerca del sapere”. Eppure, un sorriso incredulo e ironico è la reazione più comune all’accostamento tra matematica e umorismo: fa ridere l’idea che la matematica possa far ridere. L’immagine diffusa del matematico, infatti, è piuttosto deprimente: per il matematico e le sue creazioni sembra che l’unica descrizione popolare sia quella dei robot!
La matematica può essere oggetto di umorismo, attraverso barzellette, nelle quali i matematici dimostrano di non essere adatti alla vita quotidiana, emergendo dalle fantasticherie che inseguono nei loro pensieri, e aneddoti, spesso veri, nei quali la caratteristica più frequentemente messa in risalto è la distrazione, vista come complemento di una concentrazione eccezionale. I matematici stessi a volte producono umorismo, usando i particolari tecnici o i modi di dire e i vezzi tipici della professione. 
Esiste addirittura un settore di attività matematica connesso all’umorismo: i giochi matematici. Mentre le barzellette le capiscono solo i matematici, i giochi sono principalmente rivolti a fruitori non matematici, che però non si accorgono di fare matematica. Non sembrano diversi dai normali esercizi, ma divertono, perché rappresentano una sfida e la soluzione di solito presenta un elemento di sorpresa.
I caratteri dei giochi messi in luce si possono riassumere in una parola: creatività. Tale potenza creativa emerge in molte dimostrazioni che percorrono una via che non sembrerebbe matematica secondo l’immagine stereotipata, grazie anche alla rottura della fissità funzionale. 
Le opinioni su quale sia il ruolo dei paradossi divergono, ma nella storia ci sono stati diversi periodi in cui l’attenzione per i paradossi è stata molto viva. Non sembra possibile individuare un tipo unico di paradossi, anche se alcuni ingredienti sono costanti. Quello che accomuna tutti i paradossi è l’aspetto divertente, perché si tratta di sorprese.
Ne vengono elencati alcuni tipi:
  1. Paradossi del senso comune, che non bisogna essere troppo facilmente disposti a considerare paradossi. Alcune conseguenze delle moderne teorie fisiche, ad esempio, sono considerate paradossi.
  2. Paradossi della percezione, come le figure impossibili, le illusioni ottiche…
  3. Paradosso di Parmenide: il primo paradosso, quello che forse è alla base di ogni altro, ovvero il paradosso del non essere. Tale paradosso va inquadrato nell’evoluzione della lingua greca.
  4. Paradossi dell’autoriferimento, come il paradosso dell’ipocondriaco, la cui malattia consiste nell’aver paura di essere ipocondriaco.
  5. Paradossi di Zenone, il quale mostra che la molteplicità produce effetti contraddittori.
  6. Paradosso del sorite, ovvero quanti granelli di sabbia fanno un mucchio (sorite)?
  7. Paradosso del mentitore: è il paradosso per antonomasia: “Io sto mentendo”.
  8. Paradossi della decisione: il coccodrillo dice che mangerà il bambino se e solo se la madre non indovina che cosa il coccodrillo farà.
  9. Paradossi della probabilità, connessi ai giochi d’azzardo: dimostrano che il senso comune non ha niente a che vedere con la probabilità anzi sono quasi sempre in opposizione.
  10. Paradossi matematici: si distinguono dai precedenti, perché in generale c’è qualcosa da fare per neutralizzarli.
  11. Paradossi dei fondamenti, ovvero quei paradossi che sono venuti fuori all’inizio del secolo nel contesto della riflessione sui fondamenti della matematica.
 
COMMENTO:
Per alcuni passaggi complessi e riferimenti elaborati, il libro è forse più per gli addetti ai lavori e per coloro che hanno una cultura matematica abbastanza solida. La prima parte è più scorrevole rispetto alla seconda, che si riduce ad una noiosa elencazione dei diversi tipi di paradossi. Alcune volte i paradossi non sono spiegati molto bene, come se nemmeno l’autore ne avesse chiara la valenza.
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